L’Armageddon, secondo il Nuovo testamento, è il luogo in cui nel giorno dell’Apocalisse si disputa la battaglia finale tra il bene e il male. E’ il campo di battaglia in cui i tre spiriti immondi radunerebbero tutti i re della Terra, incitati da Satana, per il conflitto finale con Dio. L’ultima battaglia tra il “Bene” e il “Male”, insomma, ma soprattutto il giorno senza domani in un luogo che dall’interpretazione dei testi sacri si chiama Tel Megiddo, ed è situato a circa 15 chilometri da Nazareth, la città d’origine di Gesù. Quindi, il termine Armageddon più che indicare un luogo, è inteso un po’ come il giorno del giudizio.
Mischiando sacro e profano, il mio Armageddon è andato in scena il 21 giugno di 26 anni fa, allo stadio Olimpico, in una domenica torrida come e più di questi giorni che ci hanno accompagnato all’inizio dell’estate. Il mio Armageddon, è stato Lazio-Vicenza del 21.6.1987: una data impressa nella memoria, indelebile come un tatuaggio sul cuore, un giorno in cui sono racchiuse tutte le emozioni di una vita da tifoso, quelle che riaffiorano anche senza chiudere gli occhi e ti provocano brividi imparagonabili a qualsiasi altra emozione (sportiva, s’intende) provata in più di 50 anni di vita. Quelle sensazioni che ti fanno scendere una lacrima solo guardando una vecchia foto in bianco e nero di Giuliano Fiorini che esulta, che ti scuotono sentendo la radiocronaca di allora di Sandro Piccinini che confonde il “bomber” con Fabio Poli, oppure l’urlo di Gianni Bezzi che termina con un pianto soffocato, mentre l’Olimpico esplode nel boato più intenso e lungo della storia della Lazio. E solo chi c’era sa bene di cosa parlo. Ma il potere dell’Armageddon, è anche quello di riuscire a trasmettere quell’emozione anche a chi non c’era. Tramite il racconto che passa di padre in figlio o di nonno in nipote, magari arricchito di ricordi personali, oppure tramite un libro, come ho cercato di fare io con “La Banda del meno nove”, che ho scritto per lasciare una sorta di testamento sportivo a mio figlio, in un momento in cui la fede non vacilla, ma per tante ragioni è finita chiusa in un forziere. Ma basta rievocare quella data per far riemergere tutto.
Sono le 17,40 circa del 21 giugno del 1987. Come detto prima, a Roma l’estate è già esplosa, le spiagge del litorale sono invase dalla gente scappata da una città avvolta in una cappa di caldo quasi insopportabile. Le strade sono praticamente deserte e in tutta Roma regna un silenzio quasi irreale. Anche l’Olimpico è silenzioso, quasi rassegnato all’inevitabile. La Lazio deve battere il Vicenza per non scivolare in Serie C, in un’annata assurda in cui nonostante quel fardello di 9 punti di penalizzazione (allora la vittoria dava solo 2 punti) la squadra era arrivata addirittura a sfiorare il sogno della promozione in Serie A. Ma poi le energie fisiche e mentali si sono esaurite, all’improvviso si è quasi spenta la luce e a una manciata di minuti dal termine dell’Armageddonbiancoceleste, si profila lo spettro della retrocessione in Serie C: non solo un marchio indelebile, ma forse addirittura la fine di tutto. Ma quando tutto sembra finito, arriva il miracolo. Quel pallone buttato in mezzo senza senso da Podavini, il tiro sbagliato che diventa addirittura un assist per Fiorini che indossando i panni del salvatore si inventa un numero straordinario e in allungo batte Dal Bianco, facendo crollare quel muro che sembrava invalicabile.
Quel silenzio figlio della rassegnazione che fino a pochi secondi prima regnava dentro l’Olimpico viene squarciato da un boato mai sentito prima: un urlo di gioia, mischiato a rabbia e disperazione, che dura un’eternità. Quel boato è come un’onda che ti fa fluttuare, che ti alza da terra e ti lascia sospeso un tempo infinito. Sulle tribune la gente si abbraccia, è un mucchio selvaggio che travolge tutto e tutti, con persone che alla fine di quell’orgia di felicità si ritrovano addirittura sei-sette file sotto al posto dove stavano al momento del gol di Fiorini. Il boato è talmente forte e prolungato che viene percepito a chilometri di distanza. Chi lo ha sentito, lontano dall’Olimpico, lo racconta come un qualcosa di irreale, durato minuti. Chi come Angelo Gregucci lo ha sentito in campo, lo racconta così.
“Quando ho visto il pallone scuotere la rete, sono quasi svenuto. Ma poi sono stato travolto da quel boato. Mai sentito nulla del genere in vita mia. In quell’urlo c’era di tutto: gioia, rabbia e liberazione. Non finiva più, ti scuoteva e ti strappava quasi la pelle di dosso tanto era forte”.
In quel gol e in quel boato, è racchiusa tutta la magia di quel 21 giugno del 1987, c’è l’essenza dell’incredibile avventura della “Banda del meno nove” che ho cercato di raccontare nel mio ultimo libro. A 26 anni di distanza, ripensando a quel momento, rivedendo le immagini sbiadite di quel gol su un VHS che conservo gelosamente, questa mattina ho provato gli stessi brividi di allora, con il volume del televisore al massimo per farmi scuotere e per farmi strappare nuovamente la pelle da quel boato. Se un gol visto migliaia di volte a distanza di più di un quarto di secolo riesce ancora a farti venire la pelle d’oca e a farti scendere una lacrima, significa che quelle immagini e quelle emozioni fanno oramai parte di te, che perdere la memoria di quei momenti sarebbe come strappare pagine fondamentali della tua esistenza.
Se in Italia ci fosse un minimo di cultura cinematografica legata allo sport, quell’avventura sarebbe diventata un film di successo, un cult movie come “Febbre a 90” o come tanti film americani sul baseball e sul football americano, sulla magia dello sport e delle emozioni che riesce a trasmettere. Ma siamo in Italia, dove se tu nomini Fiorini, quel gol e quell’avventura magari ti senti anche rispondere da qualche tifoso laziale di oggi: “Se, vabbé, mo famo pure l’elogio della quasi serie C”… Come se fossero solo i successi a meritare la copertina.
Per me lo sport è emozione e non fa nessuna differenza se l’evento che ti ha provocato brividi ed emozioni talmente forti da aver resistito al passare del tempo è legato alla conquista di uno scudetto, ad una coppa alzata al cielo, oppure ad una salvezza conquistata in extremis e ad un gol che in un secondo ti ha portato dall’Inferno al Paradiso. Senza neanche passare per il Purgatorio. Perché alla fine sono le emozioni che contano, non i trofei. Perché senza le emozioni, lo sport in generale e il calcio in particolare diventa come una scatola di cioccolatini bellissima da vedere fuori, ma completamente vuota. Un po’ come il calcio italiano di oggi.
Per questo io, come tanti laziali, resto e resterò per sempre legato a quella squadra e al ricordo di quel gol, di quel boato. Perché quel 21.6.1987, è il mio Armageddon. E la magia sta nel fatto che non solo noi che lo abbiamo vissuto ci emozioniamo ancora, ma che sentendo raccontare quel gol e vedendo le immagini sbiadite di quel gesto e dell’esultanza di Fiorini si emozionano anche persone che all’epoca non erano neanche nate.
E’ grazie a quelle emozioni che amo ancora la Lazio. E se nonostante tutto resto ancora attaccato a questa squadra e a questi colori, il merito è anche di quella “Banda del meno nove”, di quella squadra che ha vinto la battaglia delle battaglie, scrivendo le pagine di una storia che già nel momento in cui veniva scritta diventava leggenda!
STEFANO GRECO
Resta Aggiornato con il nostro Canale WhatsApp! Ricordiamo che il canale è protetto da Privacy ed il tuo numero non è visibile a nessuno!Iscriviti Subito cliccando qui sul canale di Since1900