lotito

Ci sono anniversari in cui c’è poco da festeggiare. E questo è uno di quelli. Sono passati 3288 giorni da quel 19 luglio del 2004, da quando quell’ometto buffo e con gli occhiali, impacciato davanti a microfoni e telecamere, appena uscito dallo studio Gilardoni annunciò alle 15.09 dalle scale del palazzetto di via Nicotera di aver acquistato il 27% della Lazio, versando nelle casse della società 18 milioni e 268.000 euro. E quelli sono rimasti gli unici soldi versati da Claudio Lotito nelle casse della Lazio in questi nove anni. Gli altri, li ha spesi per aumentare le sue quote, per blindare il controllo della società, ma li ha versati a Unicredit (tramite Mezzaroma), a BNL, al suo socio e amico di sempre Innocenzi (che entrò all’epoca con un 2,667% per evitare a Lotito di superare la soglia del 30% che avrebbe fatto scattare l’OPA) e ad investitori vari con la “finta” OPA del 2007 fatta solo per evitare conseguenze peggiori dopo che i PM di Milano avevano indagato lui e Roberto Mezzaroma per “aggiotaggio e ostacolo all’attività della Consob”. La vicenda che lo ha portato ad incassare dal tribunale di Milano una delle tante condanne collezionate in questi nove anni di presidenza.

Se quel 19 luglio del 2004 qualcuno ci avesse detto che dopo 3288 giorni quell’imprenditore sconosciuto, messo alla guida della Lazio dalla politica romana con l’assenso dopo un lungo braccio di ferro dal potere bancario, saremmo scoppiati tutti a ridere o avremmo preso per pazzo il nostro interlocutore. Sì, perché fu proprio Lotito (all’epoca sempre occhialuto ma con almeno 20 chili in meno rispetto ad oggi) a definirsi un “traghettatore”, uno chiamato a salvare la Lazio per portarla “dal funerale al coma irreversibile, per poi tornare alla vita normale”. Una delle tante frasi diventate celebri pronunciate in questi anni, infilate tra una citazione in Latino, un riferimento a Manzoni o a un paragone con Abebe Bikila.

Posso dire con tranquillità che questo è il più bel giorno della mia vita da imprenditore. Sono pronto per portare avanti una sfida molto impegnativa: so bene, infatti, che la condizione economica del club non è semplice, ma io, ripeto, sono pronto. Chiaramente siamo all’ inizio e la cosa è molto complicata. Però speriamo di realizzare tutte le soluzioni possibili per risanare la società. Progetti? Intanto cerchiamo di riportare la situazione in equilibrio in una società che ha problemi di carattere economico, finanziario e patrimoniale. Poi ci interesseremo della programmazione e dei nuovi investimenti. Un grazie di cuore ai tifosi che ci hanno sostenuto ed un grande forza Lazio”.

Parole che accesero i cuori, parole che scatenarono una festa che si protrasse fino a notte fonda davanti ai cancelli della Nord, con migliaia di tifosi a brindare e a cantare cori per aver scampato l’incubo del fallimento. Un fallimento che non si sarebbe mai concretizzato, per il semplice motivo che chi aveva guidato la Lazio dalla defenestrazione di Sergio Cragnotti (gennaio 2003) fino a quel 19 luglio del 2004, non si sarebbe mai potuto permettere di veder finire i libri davanti al Tribunale Fallimentare, di far scoperchiare quel pentolone in cui c’erano consulenze milionarie inutili affidate ad amici ed amici degli amici, contratti d’oro ingiustificati, un aumento di capitale da 120 milioni di euro del 2003 svanito in un week-end estivo. Quello o peggio che hanno trovato dall’altra parte del Tevere gli americani quando una volta entrati hanno potuto vedere le vere carte del bilancio della Roma. Ma mentre con la Lazio la banca si defilò subito, concordando la sua uscita definitiva entro il 30 giugno del 2005 (da qui l’obbligo per Lotito di mettere in altre mani quel 17% di azioni di Capitalia per non essere obbligato a fare un’OPA da oltre 40 milioni di euro…), con gli americani è rimasta incastrata dentro la Roma a pagare il conto. E pure in modo salato. Ma questo è un altro discorso…

Difficile riassumere in un solo articolo questi anni, raccontare la battaglia con l’Agenzia delle Entrate e il tradimento verso quanti versarono sangue (vero) per consentire a Lotito di firmare quell’accordo spalmando su 23 anni un debito che doveva essere saldato al massimo in cinque anni. Difficile non sorridere pensando alla corsa in motorino dell’avvocato Gentile verso il Tribunale di Tivoli per depositare all’ultimo minuto dell’ultimo giorno utile (una costante del modo di agire di Lotito) i documenti per evitare l’apertura della procedura di fallimento, unico vero successo ottenuto dall’avvocato amico del presidente che in questi anni ha collezionato in tutte le aule (ordinarie e sportive) una serie di sconfitte da Guinness dei primati. Difficile non sorridere ripensando ai nomi di certi giocatori che hanno indossato la maglia della Lazio, pedalatori sconosciuti arrivati da ogni parte del mondo e spariti con la stessa velocità con cui erano arrivati. Difficile non sbattere i pugni sul tavolo quando qualcuno si ostina a parlare di un Lotito “a cui non si può dire nulla dal punto di vista dei conti e della gestione della società”, con una Lazio che 9 anni dopo si ritrova con oltre 60 milioni di euro di monte ingaggi (che sarà abbattuto quando Zarate si svincolerà ma a costo zero dopo che su di lui la Lazio ha investito circa 47 milioni di euro in 5 anni…) ma con un fatturato inferiore a quello del 2004, nonostante l’aumento vertiginoso delle entrate garantite dai diritti tv. Una Lazio che nel 2004 aveva 42.000 abbonati e 52.000 spettatori fissi a partita e che ora supera quota 50.000 una volta all’anno e solo in occasione del derby. Una Lazio che nel 2004 incassava circa 7 milioni di euro all’anno solo dal main sponsor e che ha iniziato da pochi giorni la settima stagione senza uno sponsor sulla maglia. Una Lazio che nel 2004 aveva alle spalle un ambiente compatto che le ha consentito di sopravvivere e che ora dopo 9 anni di Lotito si ritrova a dover fare i conti con divisioni mai viste in 113 anni di storia, con migliaia di tifosi che a causa della presenza di Lotito (per alcuni è una scusa, ma per tanti è una scelta precisa) da anni disertano l’Olimpico.

Questo è un lato della medaglia, l’altro è rappresentato dai risultati sportivi. In 9 anni Lotito ha vinto tre trofei, due Coppa Italia e una Supercoppa, a fronte di piazzamenti in campionato deludenti, con la Lazio entrata una sola volta in nove stagioni tra le prime tre, per giunta in un’annata anomala senza Juventus e Napoli, con Fiorentina e Milan pesantemente penalizzate in classifica a causa delle conseguenze di Calciopoli. Scandalo che a causa del coinvolgimento di Lotito ci costò la partecipazione alla Coppa Uefa e un’estate d’inferno, con la retrocessione in Serie B a tavolino poi trasformata in una penalizzazione che tra un ricorso e l’altro alla fine fu di soli 3 punti.

Lotito ha vinto quei tre successi arrivati sempre nel momento in cui la contestazione montava gli hanno consentito di restare in sella, di salire a livello di trofei vinti (ma non di valore, perché uno scudetto vale sicuramente più di tre coppe…) al secondo posto nella classifica dei presidenti più vincenti di tutti i tempi. Questo è quello che dicono i numeri se ci si ferma alla facciata, perché nessuno dice che Lotito resta a galla grazie ai 60 milioni di euro che garantiscono ogni anno i diritti televisivi, soldi che anche Cragnotti non ha mai visto (il vero boom c’è stato a partire dal 2003 con l’arrivo del digitale terrestre e la possibilità di vedere le partite sui telefonini e i tablet) figuriamoci Calleri o tutti i presidenti che lo hanno preceduto. Gente costretta ogni anno a mettere di suo nelle casse di una Lazio che viveva solo grazie al contributo dei tifosi che riempivano l’Olimpico. Se fosse così anche oggi, con 30.000 tifosi di media a partita nonostante 7500 abbonamenti a 1 euro e con circa 7 milioni di euro d’incasso ai botteghini, la Lazio sarebbe spacciata. E lo sarebbe anche se dovesse contare sugli investimenti diretti del suo presidente, che dopo i 18,268 milioni versati nell’estate del 2004 non solo non ha messo più un euro nelle casse della Lazio, ma tramite le sue aziende incassa ogni dai 3 ai 5 milioni di euro grazie alla Lazio.

Lotito ha dei meriti, questo è fuori di dubbio. Come non ci sono dubbi sul fatto che sia intelligente, scaltro e anche fortunato. Molto fortunato. E come diceva Napoleone, “è meglio avere un generale fortunato che uno bravo” per vincere le guerre. Vale nella vita in generale, ma ancora di più nel calcio dove a volte il destino è una questione di centimetri, ad un pallone che andando troppo a destra o troppo a sinistra può cambiare il corso di una stagione e forse della storia di un personaggio e di un club. E in questo, Lotito è stato senza dubbio il numero uno nella storia della Lazio, perché con la sua fortuna Cragnotti avrebbe vinto sicuramente un paio di scudetti in più e almeno una Coppa dei Campioni. E questo è un merito.

Il problema, è che i limiti di Lotito sono evidenti, da anni. Il salto di qualità con lui la Lazio non lo potrà mai fare, perché anche se Lotito insiste (come la volpe che non arriva all’uva e quindi dice che non è buona) a dire che “non è vero che chi più spende più vince”, nel calcio moderno vince solo chi investe e pure pesantemente. Basta guardare oltre frontiera, basta vedere come l’arrivo di un russo ha portato il Monaco dalla Serie B francese alla possibilità di conquistare un posto in Champions League. In un anno… E noi sono anni che sogniamo di fare quel salto di qualità. E quello che fa più male, è che se un russo come quello del Monaco o uno dei tanti arabi sbarcati a investire in Europa bussa alla porta di Formello, la risposta è “non vendo neanche se mi danno 500 milioni di euro, perché il mio sogno è di lasciare la Lazio in eredità a io figlio”. Una frase che fa sorridere, ma che diventa quasi un oscuro presagio pensando che se il 19 luglio del 2004 qualcuno ci avesse detto che 3288 giorni dopo quell’imprenditore buffo e occhialuto sarebbe stato ancora alla guida della Lazio avremmo sorriso tutti, invece…

STEFANO GRECO – LAZIOMILLENOVECENTO



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