Date consegnate alla storia, da un evento, piccolo o grande che sia, che ha cambiato il corso degli eventi. Date che per questo vengono incise sui libri o che restano per sempre impresse nella memoria della gente. Se il 4 luglio per gli americani è il giorno dell’Indipendenza, per i laziali il 5 luglio, da più di un quarto di secolo a questa parte, è una data da festeggiare come il 12 o il 14 maggio. I giorni del primo e del secondo scudetto. O come il 26 maggio di recente memoria. Il 5 luglio è come un tatuaggio, indelebile, almeno per tutti quelli che lo hanno vissuto. Sì, perché il 5 luglio del 1987 è finito un incubo durato un anno, quello di veder sparire la Lazio.
Sono passati 26 anni da quel giorno, ma rivedendo questa foto in bianco e nero un po’ sbiadita dell’esultanza di Fabio Poli dopo quel gol segnato al Campobasso, il tuffo nel passato e nelle emozioni di quella giornata è immediato. Tutto di quel giorno è indimenticabile. Il viaggio silenzioso verso Napoli, avvolti in mille pensieri, alcuni scacciati via chiudendo e riaprendo gli occhi; la cappa opprimente di caldo che avvolgeva la città; la tensione accumulata in un anno che faceva scorrere in modo lento le lancette dell’orologio; quella curva stracolma, traboccante di entusiasmo misto a tensione e rabbia, opposta a quell’altra semivuota al punto da mettere tristezza solo a guardarla. Poi, il grande brivido nel vedere Boito solo davanti a Terraneo, con l’incubo della fine di tutto che ti gela il sangue anche con una temperatura più vicina ai 40 che ai 30 gradi. E svanita la paura, il brivido per il rischio corso che scuote la Lazio e il Dio del calcio che, implacabile, entra in scena: gol sbagliato, gol subito, recita una regola del calcio vecchia quanto questo sport. E la Lazio una volta tanto beneficia di quella legge non scritta. Dopo un’azione avvolgente, da sinistra Piscedda con l’esterno del piede sinistro mette uno strano cross dentro l’area: sul pallone alto e teso si tuffa Fabio Poli che non è un gigante, ma per un gioco di magia e di destino supera in elevazione tutti i difensori e di testa manda il pallone ad accarezzare la rete. E’ il gol della liberazione, quello che scaccia i fantasmi che già si agitavano sul San Paolo e quel gelo che ognuno di noi aveva dentro. E’ la rete che fa entrare nella storia Fabio Poli e che trasforma in leggenda quell’annata e la“Banda del meno nove”.
Mentalmente l’ho rivisto migliaia di volte quel gol, come ho rivissuto migliaia di volte quella giornata e quella partita, sempre con il terrore palpabile di vederla finire in modo diverso. Un po’ come quando si sogna di dover rifare l’esame di maturità, con l’incubo di non farcela oppure di non riprendere più quel voto conquistato con fatica immane. Lazio-Vicenza del 21 giugno 1987 resta per tutti noi che l’abbiamo vissuta dal vivo, ma anche per i laziali che l’anno vissuta nei ricordi di genitori, parenti e amici, la “Partita”, quella con la P rigorosamente maiuscola. Ma Lazio-Campobasso nella storia della Lazio è una sorta di pietra miliare, perché quel giorno questa società disgraziata ha gettato le basi per un futuro completamente diverso, di trionfi in quel momento addirittura inimmaginabili. Senza quel gol di Poli non avremmo mai vissuto la gioia della promozione in serie A dell’anno successivo; senza il finale a lieto fine di quel 5 luglio forse non avremmo mai vissuto l’era-Cragnotti e le gioie di quegli anni fantastici. Per questo parlare dell’incredibile avventura della “Banda del meno nove” non significa essere per forza di cose malati di nostalgia. Significa onorare la storia, avere la consapevolezza che gli avvenimenti di una vita sono come tanti anelli di un’unica catena: basta toglierne uno, apparentemente anche insignificante, per spezzare tutto, per cambiare il corso della storia e di una vita, cancellando tutto quello che c’è dopo.
Quindi, questa è una giornata di festa, non di nostalgia, anche se pensando alle lacerazioni degli ultimi anni, mai come in questo momento il ricordo di quei tempi e di quella Lazio è veramente una ferita aperta che sanguina e che fa male solo a guardarla. Guardi i vecchi filmati della “Banda del meno nove” e sui volti dei protagonisti e della gente vedi una rabbia e una partecipazione che oggi purtroppo non c’è più. E non potrebbe essere altrimenti, visto che quella squadra e quella società erano lontane anni luce da questa Lazio senza identità e senza anima che abbiamo davanti agli occhi. Rivedi le foto delle manifestazioni con 30.000 laziali in piazza, le immagini della battaglia di Villa Borghese e a 26 anni di distanza pensi che quel furore di allora è solo un lontano ricordo, che pochi di quelli che resero incandescente quell’estate del 1986 sarebbero disposti ora a scendere in piazza per questa Lazio. Nonostante il piccolo fuoco riacceso da quella vittoria del 26 maggio. E’ bruttissimo dirlo, ma purtroppo questa è la triste realtà.
Voglio chiudere il ricordo di questa giornata, con un estratto dell’intervista che ho fatto a Fabio Poli e che ho raccontato nel mio ultimo libro, “La Banda del meno nove”. Quando gli ho chiesto se non gli bruciava un po’ il fatto che lui aveva segnato il gol decisivo, quello che aveva sancito la salvezza definitiva della Lazio ma da sempre per tutti l’immagine di quella stagione era legata al gol di Fiorini contro il Vicenza, Fabio ha sorriso e ha risposto con parole dolci in cui è racchiusa tutta la magia di quel gruppo e il perché quella “Banda” è entrata di diritto nella leggenda.
“Come faccio a essere invidioso di Giuliano, è impossibile. E poi, quello al Vicenza è stato molto più determinante, perché senza quella sua zampata a pochi minuti dalla fine, noi a Napoli non ci saremmo neanche arrivati e io non avrei avuto la possibilità di lasciare quel segno nella storia della Lazio. Poi, io ero meno personaggio rispetto a Fiorini, quindi ho pagato forse anche questo mio modo di essere un po’ timido e riservato, mentre i tifosi amano quelli estroversi come lui, in grado di esternare le loro sensazioni e di coinvolgere la gente. Quindi è giusto che il simbolo di quella stagione sia e resti il suo gol al Vicenza, soprattutto per quello che è successo dopo”.
“La sua morte è una di quelle ferite impossibili da rimarginare”– mi dice Fabio Poli dopo una lunga pausa e un sospiro che tradisce ancora dolore e tanta nostalgia – “perché io e Giuliano eravamo amici, inseparabili. Ci siamo conosciuti giocando qualche mese insieme nel Bologna e il rapporto è nato immediato, spontaneo. Le nostre strade si sono divise, poi come per magia ci siamo ritrovati a Roma, scelti entrambi da Giorgio Chinaglia. E nella Lazio siamo diventati quasi due fratelli. Spesso nei giorni di riposo tornavamo in macchina insieme a Bologna e parlavamo per ore della nostra vita a Roma e della Lazio, dei tanti problemi che avevamo dentro e fuori il rettangolo da gioco. E quelle difficoltà ci hanno unito ancora di più. Lo so che a prima vista può sembrare assurdo o difficile da credere, ma noi due eravamo simili. Io ero pazzo forse anche più di lui, ma ero un matto silenzioso, mentre lui non si teneva niente dentro, esternava tutto. E anche per questo suo modo di essere la gente lo amava alla follia e lo amerà per sempre”.
STEFANO GRECO – LAZIOMILLENOVECENTO
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