supercoppa italiana 2000Di trionfo in trionfo, come un volo senza fine che si può gustare fino in fondo solo chi ha sognato per un’intera vita di poter spiccare il volo, di riuscire ad aprire le ali per salire in cielo e guardare tutti dall’alto. Un volo da brividi che ti fa assaporare fino il fondo il piacere del momento, che ti provoca brividi che ti scuotono e ti emoziona facendoti provare alla soglia dei 40 anni le stesse emozioni di quando da bambini ti avvicinavi all’albero di Natale per scartare i regali, per aprire quei pacchi in cui erano racchiusi tutti i sogni cullati per dodici interminabili mesi. Così si sentono i tifosi della Lazio l’8 settembre del 2000, la sera della finale di Supercoppa d’Italia giocata contro l’Inter di Marcello Lippi.

La Lazio è reduce da sei trionfi in 28 mesi, trionfi che hanno ubriacato di felicità un intero popolo dopo un’astinenza durata quasi un quarto di secolo: uno scudetto, una Coppa delle Coppe, una Supercoppa d’Europa, due Coppa Italia e una Supercoppa d’Italia, con l’unico neo di una finale di Coppa Italia persa a Parigi contro l’Inter. Roba da stordire, roba da far impazzire e da far perdere quasi il contatto con la realtà anche a gente che ha vissuto per una vita con i piedi sempre incollati per terra. Sono passati quasi quattro mesi dalla conquista dello scudetto, di un trionfo assaporato fino in fondo ma festeggiato senza eccessi. Però c’è voglia di Lazio, c’è voglia di esserci alla prima ufficiale della Lazio con lo scudetto sul petto, anzi, con quella maglia del centenario piena di coccarde tricolori sul petto, perché la Lazio imitando la Juventus e il Napoli (uniche squadre ad aver fatto l’accoppiata in precedenza) dopo aver vinto il tricolore a distanza di tre giorni è andata a prendersi anche la Coppa Italia proprio in casa dell’Inter. Lazio padrona, Lazio senza rivali, Lazio che nel mercato ha messo le mani sul meglio che c’era in circolazione, affidando la porta biancoceleste a Peruzzi, mettendo sotto contratto per l’attacco la coppia titolare della nazionale argentina: Hernan Crespo e Claudio Lopez. Per molti quella messa su da Cragnotti è la Lazio più forte di tutti i tempi. Forse è proprio così, ma il problema non è la squadra, ma certe crepe che si sono aperte all’interno dello spogliatoio. Mancini è passato dal campo alla panchina, l’ex perdente di successo Eriksson è solido al vertice del gruppo, ma è stanco, fiaccato dalle troppe pressioni a cui è stato sottoposto negli ultimi tre anni, ammaliato dalle sirene che arriva d’oltre Manica e da ingaggi che neanche la Lazio di Cragnotti si può permettere di elargire. E nel giro di poco più di tre mesi, quelle crepe diventeranno vere e proprie voragini. Ma quel giorno nessuno immagina quello che succederà da lì a gennaio. Quel giorno c’è solo aria di festa.

Sugli spalti dell’Olimpico si sono dati appuntamento quasi in 70.000 e lo stadio è colorato da migliaia di bandiere biancocelesti e tricolori quando le squadre entrano in campo. E l’Inno di Mameli cantato a squarciagola da tutto lo stadio provoca brividi che tornano a far accapponare la pelle a distanza di 13 anni solo chiudendo gli occhi. Come non può non mettere i brividi e provocare un certo magone leggere i nomi della formazione mandata in campo quella sera dal duo  Eriksson-Mancini in un rigoroso 4-4-2: Peruzzi; Pancaro, Mihajlovic, Nesta, Favalli; Stankovic, Simeone, Veron, Nedved; Crespo, Claudio Lopez. Roba da vincere ad occhi chiusi ai giorni nostri sia lo scudetto che forse anche la Champions League. Dall’altra parte ci sono Ballotta, il portiere dello scudetto, e Jugovic, il genio di centrocampo che ha illuminato la prima Lazio targata Eriksson, quella che ha vinto la Coppa Italia e sfiorato il bis in Coppa Uefa.

Pronti via e l’Inter è in vantaggio. Farinos, con un lancio lungo buca la difesa della Lazio e in quel varco si inserisce il velocissimo Keane che batte sullo scatto Nesta, supera con un pallonetto Mihajlovic, controlla e batte Peruzzi. E’ il 2’ di gioco. Un gol che somiglia molto a quello incassato la settimana scorsa dalla lazio a Torino contro la Juventus. Un colpo a freddo che potrebbe piegare le gambe e mandare ko anche il più sicuro dei pugili, ma non la Lazio di quei tempi. La squadra mette palla al centro e riparte come se nulla fosse successo, come se fosse quasi naturale concedere un gol di vantaggio ad avversari sulla carta nettamente più deboli. E inizia a macinare gioco, a mettere alle corde l’Inter. Tre calci d’angolo in meno di 120 secondi sono il frutto di una pressione costante, quasi asfissiante, di una squadra consapevole della propria forza e sorretta da un pubblico incredibile. Ma La Lazio deve aspettare mezz’ora per cogliere l frutto di quella pressione: Favalli vola sulla sinistra, crossa per Claudio Lopez che stoppa di petto e batte Ballotta con un diagonale di precisione quasi chirurgica. L’Inter sbanda e il duo Crespo-Lopez infierisce. I due argentini si trovano ad occhi chiusi e su un lancio di Stankovic che taglia tutto il campo partono insieme: Crespo supera il difensore, sta per avventarsi sul pallone ma Lopez lo precede e di sinistro batte ancora una volta Ballotta spedendo il pallone nell’angolo più lontano. In 6 minuti la Lazio ha ribaltato il risultato e va negli spogliatoi con la consapevolezza di aver archiviato la pratica.

All’inizio della ripresa è Mihajlovic a firmare su rigore il 3-1. L’Inter prova a reagire con Farinos, ma ad un quarto d’ora dal termine il “genio” di Veron illumina una serata, con una di quelle invenzioni tipiche del patrimonio della “brujita”. Veron controlla palla, tergiversa, vede con la coda dell’occhio Stankovic che arriva come un treno sulla sua destra e con un tocco tanto maligno quanto perfetto mette un pallone perfetto che buca la linea a quattro dell’Inter e mette il serbo solo davanti a Ballotta: Stankovic controlla e con un pallonetto perfetto sigla il 4-2 e poi vola verso la Nord per raccogliere l’abbraccio della sua gente.

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Il 4-3 di Vampeta serve solo per le statistiche e regalare qualche brivido in vista del triplice fischi finale di Farina, ma il copione di questa partita e il finale è già scritto da tempo. Il boato quindi non è rabbioso, ma prolungato, con l’acuto e il picco di decibel quando Alessandro Nesta alza al cielo di Roma il settimo trofeo conquistato in 28 mesi. “La Lazio fa paura”, titola il giorno dopo “La Gazzetta dello Sport”, rendendo omaggio a quella che in quel momento è la squadra più forte d’Italia e forse d’Europa, visto che si è presentata al sorteggio dei gironi di Champions League accreditata dall’Uefa come testa di serie numero uno. E l’inizio in quel mese di settembre è travolgente: 6 gol alla Sampdoria in Coppa Italia, 6 reti rifilate a Shakhtar Donetsk e Sparta Praga in Champions League. Nessuno in quel momento può neanche solo immaginare che quello alzato al cielo da Nesta è l’ultimo trofeo dell’era Cragnotti, che quella squadra da lì a pochi mesi perderà sia Eriksson che Mancini, che quello sarà l’ultimo acuto di un gruppo di campioni che saprà ridestarsi solo con l’arrivo di Dino Zoff, fino a sfiorare l’impresa di riagganciare la Roma in vetta alla classifica per evitare di dover cedere il titolo proprio agli odiati rivali. Quell’8 settembre abbiamo assistito all’ultimo atto del periodo più bella della nostra vita di tifosi della Lazio, alla fine di un sogno durato tre anni nei quali la Lazio ha vinto tutto quello che non era riuscita a vincere nei precedenti 100 anni di vita. E il solo poter dire “IO C’ERO”, fa prevalere l’orgoglio per aver vissuto quei momenti sulla nostalgia per un passato che forse non tornerà mai più.

STEFANO GRECO



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