La brujita sotto la Nord ci ha fatti emozionare, ancora una volta

In principio ad ogni avvenimento, che sia nefasto o da salutare con gioia, c’è del bene e del male. L’uno è sempre accompagnato dall’altro e non potrebbe essere altrimenti quando di mezzo c’è il genere umano. E così, nello squallore di Lazio Sassuolo, tra strafalcioni tecnici, imprecazioni e sogni sfumati, è apparsa comunque una luce, seppur sbiadita e proveniente dal passato. Nostalgia è la prima sensazione che essa ha donato a noi laziali, ma nostalgia dolce, malinconica gioia, se ci passate l’ossimoro. Juan Sebastian Veron, “padre” calcistico dell’inconcludente ma geniale Joaquin Correa, ha presenziato all’Olimpico per assistere al match ed ha approfittato per dare un saluto al cuore dei supporters biancocelesti, sfilando sotto una Nord visibilmente in festa.

Il figlio di Ramon detto la Bruja (la strega, in italiano), nato e cresciuto a La Plata, il calcio c’è l’ha avuto e c’è l’ha nelle doppie eliche del DNA. Diremmo: “Di padre in figlio”, per usare un’espressione a noi cara, e il caso è dei più felici, poiché la Brujita segue precisamente le orme del padre, lasciando solchi ancor più profondi nella grande arena del calcio argentino ed europeo. La casacca biancorossa a bande verticali è stata cucita indosso a Juan come al fratello Iani (meno dotato tecnicamente), così il nostro sposerà la causa della principale squadra di La Plata, l’Estudiantes, esplodendo calcisticamente proprio negli anni di maggiore difficoltà economica del club dei Pincharratas (letteralmente, abbattitori di topi). La crisi porterà l’Estudiantes a vendere il gioiellino ai rivali del Boca Junior, i quali lo gireranno l’anno dopo ad una delle regine del calcio italiano di quegli anni, ovvero la Sampdoria. Il Boca è un’occasione, un treno che nella vita passa una sola volta, figuriamoci il calcio europeo per un ragazzo argentino, figlio di una nazione che sa cosa vuol dire stentare, che trova nel Vecchio continente la consacrazione definitiva e che ha scelto la strada dello sport più bello del mondo. Insomma, dalle parti di Genova il buon Eriksson ha a che fare con una bella rogna, ma al difficile grattacapo di chi acquistare al posto di Seedorf (eredità leggerissima, per carità!) lo svedese punta Veron. Marassi dopo poco se ne innamora e i motivi di questa infatuazione vanno ricercati nel suo talento: lanci millimetrici, abilità nello stretto e nell’ultimo passaggio decisivo, botta terrificante (il pallone sembra non ruotare di mezzo grado mentre sorvola l’erba) e tanta, tantissima energia lì nel mezzo (sì, la garra… ogni riferimento ad Adani è puramente voluto). Il centrocampista perfetto. Se ne innamora però anche Callisto Tanzi, numero uno di Parmalat e Parma Calcio, che lo porterà in Emilia per alzare una storica Coppa UEFA e una Coppa Italia. Ma il richiamo del suo primo allenatore in Italia si fa subito sentire: Eriksson lo vuole a Roma, sponda Lazio; Cragnotti, dopo varie peripezie, vuole vincere, non badando a spese. Un altro di quei treni che non passano più. Già, perché quella Lazio, oltre alla Brujita, ha altri dieci giocatori di primissima scelta e l’obiettivo è vincere per prendersi la gloria eterna, come eterna è la Città che calorosamente lo accoglie. Lo scudetto in casa Lazio mancava dal ’74, dagli anni della romantica e scalmanata Banda Maestrelli che dalle nostre parti ha dell’innominabile, del sacro, quasi pagano. Veron dà il massimo e si vede, Eriksson disegna il contorno: due diavoli come incursori di centrocampo, Almeyda e Simeone, con altri due vagoni Frecciarossa sulle fasce, Nedved e Conceicao, mettono nelle condizioni il ragazzo della provincia di Buenos Aires di avere il dominio incontrastato in mediana. I successi non tardano ad arrivare: una Coppa Italia, uno Scudetto, una Supercoppa italiana e una Supercoppa europea contro il fortissimo Manchester United del 1999. Per sua ammisisione: “La Lazio è il posto dove ho avuto maggiore costanza. Due anni sempre al massimo, senza cadute. Negli altri club ho fatto bene, ma ho anche avuto dei cali“. Cali che si vedranno nelle esperienze di Chelsea e United; in oltremanica, addirittura, Veron definiva noioso il campionato, al punto da non essere neanche paragonabile a quello italiano. Fu così che l’Inter decise di aggiudicarselo prima che la sua carriera prendesse l’inevitabile via del tramonto; all’ombra della Madonnina tornò appunto ad essere decisivo, “vincendo” il famoso scudetto del veleno, quello post Calciopoli, oltre ad alcune coppe. Eppure, nella sua mente suona ancora il tango d’Argentina. È il grido tribale di un ritorno promesso nella sua terra, un richiamo che si fa sempre più forte. La vittoria del Campeonato di Apertura con la maglia dei Pincharratas contro la corazzata Boca di Martin Palermo, Fernando Gago e Rodrigo Palacio sa di impresa mistica, almeno quanto la più ambita coppa del Sudamerica per club vinta più tardi: la Copa Libertadores, che porterà a La Plata nel 2009 dopo un lungo digiuno.

Tutto qui? Neanche per sogno. Chi vive di calcio non smette mai e, sebbene il ritiro arriva nel 2014, Juan Sebastian Veron è oggi il presidente dell’Estudiantes. La giusta carica di riconoscenza e merito per un uomo che al calcio ha dato tanto dal punto di vista umano e tecnico; indimenticabili per noi laziali saranno i suoi lanci millimetrici e le sue bombe dalla distanza, tra cui una in particolare…. a buon tifoso, poche parole.



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