Un personaggio incredibile, una via di mezzo tra Fernandel e Alberto Sordi. Per raccontare la storia di Juan Carlos Lorenzo, dovrei pubblicare quasi integralmente quello che ho già raccontato in “Una vita da Lazio”, il libro scritto a quattro mani con Arcadio Spinozzi. E che era solo una parte di quello che era riuscito a combinare in quei pochi mesi del terzo capitolo della sua avventura laziale questo istrionico personaggio che sembrava uscito da una commedia degli anni Sessanta.
Juan Carlos Lorenzo, “don Juan” per gli amici, è nato a Buenos Aires il 20 ottobre del 1922. Come trequartista sinistro si impone nel Boca Juniors e nel 1948 sbarca in Italia, dove gioca per quattro campionati nella Sampdoria. Finita l’avventura in Italia, si trasferisce in Spagna dove gioca nell’Atletico Madrid, nel Rayo Vallecano e poi chiude con il Maiorca. E appesi gli scarpini al chiodo alle Baleari inizia la sua carriera da allenatore. Poi torna in Argentina per allenare prima il San Lorenzo, poi per un anno la Nazionale. Nel 1962, compare per la prima volta sulla scena biancoceleste, chiamato da Ernesto Brivio. E qui inizia una storia che merita di essere raccontata con dovizia di particolari, perché in tre esperienze in biancoceleste è riuscito a fare di tutto. A conquistare promozioni e a retrocedere, a scoprire futuri campioni e a rigenerare giocatori che oramai hanno imboccato il viale del tramonto, a tradire e ad essere a sua volta tradito. Il suo nome è legato a trionfi e a tonfi altrettanto eclatanti, ha scatenato polemiche furibonde ed è stato travolto dalle sue stesse polemiche. Insomma, è riuscito a fare tutto e il contrario di tutto.
Juan Carlos Lorenzo ha due religioni: il lavoro e la scaramanzia. Tiene i giocatori in campo per ore a preparare schemi, ma se perde la partita la colpa è delle “spie” che vede in ogni angolo o delle magliette che portano sfortuna e vengono bruciate negli spogliatoi. E’ stato capace di indossare per mesi lo stesso vestito, le stesse scarpe luccicanti, la stessa cravatta, di mangiare le stesse cose e di passare con il semaforo rosso perché erano tutte cose che portavano bene. Arriva a Roma dopo un lungo corteggiamento da parte di dirigenti laziali e viene portato subito in trionfo, perché al primo colpo riporta la squadra in serie A. Per la Lazio, quello sembra il segnale della definitiva rinascita, perché sotto la guida di Lorenzo la squadra chiude il campionato successivo all’ottavo posto in classifica, lanciando tra l’altro giovani di grande prospettiva. “Don Juan” ha un accordo biennale, ma tradisce la causa nel modo peggiore, passando alla Roma. Un tradimento che fa perdere la pazienza anche ad un dirigente imperturbabile come Nanni Gilardoni, che lo caccia in malo modo dal campo di allenamento di Tor di Quinto.
Da romanista, vive il momento più cupo della sua carriera, arrivando ad organizzare una ridicola colletta tra i tifosi giallorossi al Sistina, per pagare almeno le spese della trasferta di Verona e una parte degli stipendi dei giocatori di una Roma guidata da Marini Dettina e travolta da mille problemi economici. Il suo trasferimento in giallorosso scatena polemiche ed autentiche risse tra i tifosi di Roma e Lazio, intanto la sua ex squadra, priva del suo “conducator” (condottiero) va anche peggio dei cugini giallorossi, precipitando per la seconda volta in serie B. Tornato in Argentina per allenare nuovamente la Nazionale e il River Plate, dopo l’ennesima esperienza a Maiorca, nel 1968 viene richiamato alla guida della Lazio con il compito di riportare la squadra in serie A. Detto, fatto. Sotto la sua guida, la Lazio domina il campionato, tra maglie bruciate, pullman che devono fare tragitti particolari per arrivare all’Olimpico passando sempre con il rosso al semaforo di Belle Arti. Lorenzo nella sua secondo avventura laziale ha il tocco magico di re Mida, riesce a trasformare i brocchi in giocatori di calcio, a rigenerare campioni stanchi, a portare 70.000 laziali allo stadio per seguire una squadra di serie B. Insomma, “don Juan” può tutto.
Al di là delle sceneggiate ad uso e consumo di giornalisti e tifosi, Juan Carlos Lorenzo è maniacale nel suo lavoro, attento al cambiamento in atto nel calcio europeo. Inventa il “tourbillon”, che all’inizio fa impazzire i suoi giocatori in allenamento, ma poi una volta assimilato fa impazzire la domenica gli avversari, che in campo si ritrovano senza punti di riferimento. Ogni sabato sera in ritiro, raduna la squadra nel bar dell’hotel e disponendo su un tavolo monete da 50 e da 100 lire, facendole ruotare in modo frenetico spiega ai giocatori gli schemi, dove e come la Lazio vincerà il giorno dopo la partita. E raramente sbaglia una mossa, tanto è vero che la sua squadra domina il campionato e conquista la serie A. Una sera, prima di una partita importante, diventa una belva. Mentre spiega la partita facendo ruotare in modo frenetico le monete, un giocatore gli ruba un pezzo da 100 lire dal tavolo, quindi al momento topico dell’evoluzione dello schema che deve portare al gol, qualcosa non gli quadra; ci mette un quarto d’ora a capire di essere stato vittima di uno scherzo, s’infuria, lancia le monete in aria e urlando insulti ai suoi giocatori se ne va a dormire lanciando una profezia: “Cabron, domani se pierde”. E la Lazio, chiaramente, il giorno dopo perde.
Ogni sabato, in albergo, beve lo stesso brandy, pretendendo dal cameriere che glielo versi nello stesso bicchiere e che glielo porti sulla stessa poltrona. La domenica allo stadio entra sempre per ultimo, alle volte quando la partita è già iniziata, e per settimane veste allo stesso modo, fino a quando non perde una partita. I suoi allenamenti sono sempre e rigorosamente a porte chiuse, perché “don Juan” la partita della domenica la prova in maniera maniacale durante la settimana, facendo fare, di volta in volta, alle riserve gli stessi movimenti che fanno gli avversari che incontra la Lazio la partita successiva. Nelle sua ultima esperienza laziale, il lunedì prima di un Sampdoria-Lazio, chiama Filisetti e nel suo linguaggio quasi incomprensibile, in un miscuglio tra italiano e spagnolo, gli dice:
“Domeniga lei marcherà Francis. Quanto pesa lei?”
“Settantasei chilogrammi”, risponde Filisetti, già un po’ preoccupato.
“Sa quanto pesa el jugador Francis?”, gli domanda Lorenzo.
“No mister, non lo so”, ammette Filisetti, sempre più preoccupato.
“Francis pesa setanta y uno kilos. Lei deve demagrir esta setimana. Domeniga deve pesar como Francis. Se meterà a dieta”.
Detto, fatto. Pesato in albergo a Genova la domenica mattina prima della partita, dopo una settimana di brodini e verdure Filisetti pesa esattamente 71 chili, ma dopo aver perso 5 chili in 5 giorni non si regge in piedi. In campo, Francis gli scappa da tutte le parti e alla fine del primo tempo la Sampdoria vince 2-0. Al rientro negli spogliatoi, Lorenzo fa bruciare le maglie, cambia Filisetti e alla fine la Lazio riesce incredibilmente a pareggiare 2-2.
In allenamento Juan Carlos Lorenzo inventa schemi decisamente “fantasiosi” per disorientare gli avversari. Una volta, prende Giordano che sta per battere una punizione e gli dice di piazzarsi vicino alla barriera, lasciando il compito di tirare ad un altro compagno. Giordano, a metà tra l’indispettito e lo stupito, esegue. Ma Lorenzo non è contento, urla, si avvicina e quasi sollevandolo lo sposta mettendolo faccia a faccia con uno degli uomini in barriera e gli dice:
“Lei deve mirar en occhi los jugadores de la barrera, y mentre el compagno esta por tirar la punizion, deve gridar ‘Hijo de mignota, mortaci tui’, y dopo deve sputar en faccia a tuti, così li distrae”.
Questo perché, anni prima, “don Juan” aveva escogitato uno schema che aveva funzionato, in una partita all’Olimpico con il Brescia. Prima di battere una punizione, con la palla già sistemata a terra e la barriera in attesa del tiro, Ghio e Ferruccio Mazzola mettono in scena una finta litigata; i giocatori avversari, presi dalla furibonda rissa che stava andando in scena tra i due attaccanti laziali, si distraggono, la barriera si apre, e arrivando all’improvviso da dietro Fortunato calcia proprio in mezzo al varco che si è aperto e segna il gol della vittoria lasciando di stucco il portiere avversario. Ma l’incubo di Juan Carlos Lorenzo, come dicevo, sono le “spie”.
A Canzo, in attesa di una partita con il Como, caccia dal campo una decina di operai che stanno lavorando sulle tribune, sostenendo che tra loro si nascondeva una spia. Tutti pensano ad uno scherzo, ma “don Juan” fa sospendere l’allenamento e non lo riprende fino a quando tutti gli operai non vengono allontanati. Il massimo lo tocca quando un giorno fa saltare l’allenamento al Flaminio. Non avendo ricevuto ordini contrari dai dirigenti della Lazio, un inserviente ha aperto i cancelli consentendo ai tifosi di accomodarsi sugli spalti per assistere alla seduta di allenamento. Don Juan, inferocito, rientra negli spogliatoi e decide di non iniziare la seduta fino a quando anche l’ultimo degli spettatori non è stato allontanato, sostenendo questa singolare tesi.
“Venendo al Flaminio – dice – ho visto una macchina targata Brescia. E’ sicuramente di una spia che ora si è mischiata ai tifosi, perché noi domenica giochiamo con il Brescia”.
Tra scene costruite ad arte e riti realmente scaramantici, Lorenzo vince il campionato e l’anno successivo riesce a superarsi. Ha la febbre, ma decide di partire lo stesso per andare a vedere una partita della Nazionale di serie C, perché ha il presentimento che quel giorno riuscirà a scovare un nuovo campione. Torna a Roma e confida ai giornalisti di aver visto giocare quello che diventerà il centravanti più forte d’Europa, un attaccante ancora un po’ grezzo che lui farà acquistare ai dirigenti della Lazio e che porterà in Nazionale. Tutti pensano a un delirio figlio dei postumi della febbre, invece Juan Carlos Lorenzo a Napoli ha visto giocare Giorgio Chinaglia, che quel giorno era sceso in campo solo per una ventina di minuti, senza combinare granché. Ma lui se ne innamora e l’estate successiva con Chinaglia arrivano anche Wilson e Nanni, tre pilastri della Lazio che anni dopo conquista lo scudetto sotto la guida di Maestrelli.
Quando arriva a Roma, Giorgio Chinaglia è grosso e grasso. Lorenzo lo allena per giorni e giorni in ritiro, gli impedisce di prendere l’ascensore, lo mette a dieta, gli toglie vino e alcolici e quando lo presenta allo stadio Flaminio in un’amichevole con il Frosinone, vedendo questo bisonte sgraziato voluto da Lorenzo, i tifosi fischiano sia Long John che “don Juan”. Lorenzo, però, insiste e difende la sua scelta: “Questo arriverà in Nazionale e diventerà il centravanti più forte d’Europa”. Forse Long John non è diventato il centravanti più forte d’Europa, ma è approdato in Nazionale e ha fatto comunque la fortuna della Lazio, diventando una vera e propria leggenda.
Dopo un primo campionato chiuso alla grande, Lorenzo parte per l’Argentina dando due indicazioni: vuole da Lenzini un attaccante per la panchina e un difensore per sostituire Marchesi. Quando torna, invece, Lenzini ha venduto Ghio, acquistando Manservisi e Andreuzza. “Mi hanno venduto un grande giocatore – dice ai giornalisti – per comprare un cameriere e una guardia svizzera. Così rischiano di andare in serie B”. E la profezia si avvera. La Lazio retrocede e Lorenzo paga con il licenziamento. Per Chinaglia, la cacciata del maestro è una pugnalata ma è anche l’occasione giusta per andare allo scontro con Lenzini e soprattutto con Antonio Sbardella. Chiede di essere ceduto o di far tornare subito Lorenzo dall’Argentina, ma invece arriva Maestrelli e il rimpianto di Giorgione per la partenza di “don Juan” si spegne ben presto. Lorenzo, intanto, riprende il suo girovagare. Sfiora la conquista di una Coppa dei Campioni con l’Atletico Madrid, torna in Argentina dove allena San Lorenzo, Boca Juniors, Racing de Avellaneda, Argentinos Juniors e Velez, poi all’improvviso viene richiamato dalla Lazio a ottobre del 1984. Chinaglia è diventato presidente e dopo una salvezza stentata ottenuta con Carosi, all’inizio della stagione successiva si rompe qualcosa e lui decide di cacciare il tecnico e di affidare la squadra a Juan Carlos Lorenzo, che al primo allenamento trova quasi 10.000 tifosi che festeggiano a Tor di Quinto il suo ritorno. E “don Juan” recita lo stesso copione delle avventure precedenti, compresi i riti scaramantici e certe scenette messe su, nelle sue intenzioni, per distrarre e sconcertare i giocatori avversari. Come fa in occasione del derby d’andata di quella stagione.
La domenica, Juan Carlos aveva la rigorosa consuetudine d’indossare indumenti prescritti dal suo personalissimo rituale: pantaloni ascellari a cinta ampia; camicia scura con alettoni al collo; scarpe a tacco alto; capelli tirati all’indietro, ricoperti da uno strato di brillantina. Sembrava un matador in attesa di entrare nell’arena a battersi col toro. Prima di quel derby si spoglia coi calciatori. Ha ampie mutande tipo quelle ascellari indossate da Fantozzi. Le tira su, fin quasi sotto le ascelle, e comincia a ballare dimenandosi e mormorando incantesimi. Poi, prende il mangianastri e esce dallo spogliatoio. Appoggia il piccolo stereo portatile sul banco del mini bar e inizia a muoversi al ritmo di canzoni latino-americane, aspettando l’arrivo dei giocatori avversari. La musica si propaga per tutti gli spogliatoi dell’Olimpico, attirando l’attenzione dei presenti. Alla vista dei calciatori della Roma, Juan Carlos alza al massimo il volume e si mette a cantare con voce da tenore, battendo ritmicamente un piede a terra. Nella mano destra tiene un bicchiere e lo protende verso gli avversari in segno di sfida. I romanisti, vedendo quel vecchio in mutande, con lo sguardo truce e il braccio teso in avanti che canta a squarciagola, restarono a bocca aperta, sbalorditi. Ma passato l’attimo di stupore, si infilano rapidamente nello spogliatoio. E sul campo, la Roma vice Campione d’Europa è irriconoscibile, così la Lazio strappa un punto che fa morale e classifica.
Ma è un’illusione. I tempi sono cambiati, i calciatori pure, ma “don Juan” pretende di usare gli stessi metodi degli anni Sessanta, trattando i giocatori in modo spartano e scostante, arrivando anche a mortificarli per stimolarli a reagire, ma ottiene il risultato contrario. Laudrup diventa “el danese del cazo”, Torrisi, Vinazzani e D’Amico sono “i pensionati”, Podavini “el malato mental”, a Storgato, appena arrivato da Torino, gli ripete in continuazione: “El frac, se tolga el frac della Giuventus”. Lorenzo mette fuori squadra Giordano per dare un esempio e quando lo tradisce anche Dell’Anno, il giovane talento a cui ha messo in mano le chiavi della squadra, la Lazio precipita e chiude il campionato all’ultimo posto in classifica.
Prima della fine di quella disgraziatissima stagione, Juan Carlos Lorenzo viene licenziato e parte senza salutare nessuno: neanche Chinaglia che lo aveva richiamato e che lo considerava quasi un padre. Il personaggio più sconcertante nella storia pluricentenaria della Lazio, torna quindi in Argentina, questa volta per restarci per sempre. Juan Carlo Lorenzo, muore a Buenos Aires il 14 novembre del 2001.
STEFANO GRECO
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