fascetti“Grazie per gli auguri e per il pensiero, ma a questa età c’è poco da festeggiare”. La cedenza toscana, la voce inconfondibile, il timbro forte e deciso nonostante le 75 primavere. Eugenio Fascetti oggi compie 75 anni, tre quarti di secolo, quasi 50 da quando si è messo per la prima volta addosso quella maglia bianca e celeste, quei colori che sono diventati parte integrante della sua vita, nonostante il continuo errare da una parte all’altra della penisola, tipico di chi sceglie di fare il calciatore prima e l’allenatore poi. Una vita con la valigia, fatta di case in affitto e di alberghi, di colori e bandiere che cambiano di anno in anno, ma ce ne sono alcuni che nonostante il lungo peregrinare ti restano per sempre nel cuore. E quando parla di Lazio, anche un duro come Eugenio Fascetti lascia trasparire un filo di emozione e di rimpianto.

“Sai cosa non mi va giù? A Roma sono tornati cani e porci, ma il mio nome non è mai stato più fatto, neanche nei momenti di grande difficoltà o quando c’era da ricostruire. Eppure io qualcosa di buono l’ho fatto con la Lazio e la gente mi ha sempre voluto bene e rimpianto. Ma probabilmente davo troppo fastidio, oppure ero considerato troppo scomodo per il mio modo di essere. Peccato…”.

In quel “peccato…”, forse, è racchiusa l’essenza della Lazio, l’impossibilità di essere “normali”,l’incapacità atavica di questa società gestire la fine dei rapporti con i personaggi più importanti della sua storia: dai giocatori ai dirigenti, passando per gli allenatori. Mai o quasi un addio con un sorriso sulle labbra, un abbraccio e una stretta di mano. È successo con Nesta e molti eroi del secondo scudetto, è successo con Di Canio e Signori, era successo anni prima con Fascetti e molti dei protagonisti della “Banda del meno nove”, Giuliano Fiorini in testa, messi alla porta a volte in modo brusco e senza neanche un “grazie”, ma rimasti nel cuore della gente. Eugenio Fascetti, però, al contrario di tanti personaggi “ripudiati” che non perdono occasione per lanciare stoccate alla vecchia società che li ha “dimenticati”, quando parla di Lazio non ha veleno da tirare fuori. E’ un osservatore sereno. Spietato, magari, ma solo perché dice quello che pensa, come ha sempre fatto nella sua vita. Forse perché da 50 anni la Lazio è parte integrante della sua vita.

Nell’estate del 1964, quasi inosservato a causa della bufera scatenata dal passaggio di Juan Carlos Lorenzo dalla panchina della Lazio a quella della Roma, sbarca nella capitale un ragazzo viareggino di 25 anni, che si è messo in luce come mezz’ala prima con la maglia del Bologna e poi con quella del Messina. Ha anche indossato anche la maglia della Juventus, conquistando da comprimario lo scudetto, ma il suo caratteraccio mal si adatta allo stile della “vecchia signora”, anche se in realtà i motivi di quel divorzio repentino (due sole presenze in bianconero) sono ben altri.

Questo ragazzo dal fisico robusto e dalla parlata toscana sciolta si chiama Eugenio Fascetti. La sua esperienza da giocatore nelle file della Lazio lascia ben poche tracce in quella stagione (appena 12 presenze prima di tornare a Messina) e nessuna traccia nella storia ultracentennale della società, ma nei suoi due anni da allenatore Eugenio “Neno” Fascetti scrive pagine destinate a restare per sempre scolpite nella memoria di ogni tifoso laziale, alla guida di quella che forse è stata la Lazio più amata di tutti i tempi, addirittura quanto la banda-Maestrelli e forse più dello squadrone allenato da Eriksson. E questo amore quasi viscerale per quella squadra, questo attaccamento quasi morboso ai componenti della “banda del meno nove”, per anni è stato una sorta di incubo per Sergio Cragnotti, che non riusciva a capire per quale motivo nell’ambiente si parlasse quasi più della Lazio leggendaria allenata da Fascetti che di quella stellare costruita da lui e che guidata da Eriksson in pochi anni ha riscritto la storia di questa società, portandola ai vertici del calcio mondiale. Ma per chi come me ha avuto la fortuna di vivere da vicino quei due anni, con il cuore del tifoso e con la testa del giornalista alle prime armi che frequenta tutti i giorni il“Maestrelli”, non c’è nulla di misterioso.

La leggenda di quella Lazio nasce il 5 agosto del 1986, in ritiro, in un albergo di Gubbio. Durante la pausa tra la seduta mattutina di 4 ore e quella pomeridiana di 3 ore, arriva la notizia tanto temuta: Lazio retrocessa in serie C per lo scandalo che ha visto coinvolto Claudio Vinazzani in un giro di scommesse, non legate ad incontri della società (la Lazio) per cui gioca. Ma il ricordo del primo scandalo-scommesse del 1980 è ancora troppo vivo e la società biancoceleste paga la pessima nomea che si è fatta in precedenza e l’odio mai celato dell’allora procuratore federale De Biase per la Lazio. Per una società che grazie all’intervento dei fratelli Calleri e di Renato Bocchi ha appena evitato il fallimento, quella sentenza equivale ad una condanna a morte. Nonostante i problemi economici, Calleri è riuscito a mettere a disposizione di Fascetti una rosa competitiva, con giocatori importanti come Gabriele Pin, sbarcato alla Lazio proveniente dalla Juventus per fare il definitivo salto di qualità; oppure Mandelli, proveniente dalle giovanili dell’Inter. E poi Acerbis e Poli, per non parlare di Terraneo, reduce da 8 campionati di Serie A da titolare a difesa della porta del Torino e del Milan. Quando Fascetti raduna la squadra, alcuni giocatori hanno già preparato la valigia per tornare a casa, decisi a strappare il contratto appena firmato. “Neno” li raduna in una sala dell’albergo, li guarda dritti negli occhi e conclude così il suo breve discorso: “Io resto a lottare, qualunque sia il verdetto finale della CAF. Chi non se la sente di fare altrettanto, salga in camera, prepari la valigia e se ne vada subito. Altrimenti resta e combatte”.Rimangono tutti!

Due giorni dopo a Gubbio, nella prima amichevole stagionale, migliaia di tifosi laziali stringono la squadra, l’allenatore e la nuova dirigenza in un abbraccio che commuove tutti. Quel giorno nasce un legame indissolubile tra quel gruppo e la gente laziale. Le battaglie di decine di migliaia di laziali che scendo a più riprese in piazza per manifestare la loro rabbia, portano ad un verdetto che suona però come una condanna a morte rimandata solo di pochi mesi: 9 punti di penalizzazione da scontare in serie B, con la vittoria che vale all’epoca 2 punti. Quella squadra, invece, grazie agli schemi di Fascetti, al suo modo di fare da scudo mettendosi sempre in prima fila petto in fuori per proteggere il gruppo da qualsiasi attacco, di domenica in domenica dà l’impressione di poter trasformare il miracolo-salvezza in realtà. Anzi, ad un certo punto della stagione arriva quasi ad agganciare il gruppo che lotta per la promozione in serie A, ma paga quello sforzo nel finale, quando agguanta gli spareggi-salvezza con Campobasso e Taranto solo il 21 giugno del 1987, all’ultima giornata di campionato, a otto minuti dalla fine della sfida-spareggio con il Vicenza. Grazie ai  gol di Fiorini e Poli, Fascetti realizza la grande impresa, ma è tutt’altro che appagato.

Lui che la serie A l’ha solo sfiorata con il Varese e poi conquistata ma subito persa con il Lecce (diventando un idolo per i tifosi della Lazio per aver fatto perdere lo scudetto alla Roma con quella incredibile vittoria per 3-2 all’Olimpico del 20 aprile 1986 firmata Barbas e Pasculli), vuole aprire un ciclo e riportare la Lazio nel grande calcio. Con grande dispiacere ma con grande sapienza calcistica, l’estate successiva Fascetti rinuncia a Fiorini, Mandelli e Poli per portare a Roma l’ex campione d’Italia e nazionale azzurro “Nanu” Galderisi, Paolo Monelli (ex gemello del gol prima nel Monza e poi nella Fiorentina di Daniele Massaro), Beruatto, Silvano Martina, Savino e Ciro Muro dal Napoli. Calleri spende quasi 6 miliardi, una cifra enorme per l’epoca, ma grazie anche all’esplosione del baby-Rizzolo viene ripagato da una promozione ottenuta con grande autorità, anche se tra mille difficoltà ambientali.

“Neno” Fascetti, infatti, nella seconda stagione entra in guerra con il mondo. Io sono uno dei pochi giornalisti a vantare con lui un buon rapporto, ma neanche io vengo risparmiato. Eugenio gira con tutti i ritagli degli articoli che scriviamo pronto a rinfacciarci un’intervista secondo lui polemica, un appunto tattico che si rivela sbagliato, fino ad arrivare allo scontro totale, come succede con alcuni colleghi “banditi” da Formello. A chi gli fa notare il fatto che questo suo modo di fare alla lunga può costargli caro, specie in una piazza come quella romana piena di radio, tv e giornali, lui risponde serafico: “Impopolare? Poco diplomatico? E cosa cambia? Tanto il giorno che perdi e la società decide di cacciarti, ti caccia. E non ti salva nessuno, anche se sei simpatico e ruffiano con i giornalisti, perché anche loro vanno con i risultati e ti abbandonano quando perdi e cadi in disgrazia. Quindi io dico quello che penso, impongo e difendo le mie regole. Non voglio casini, quando dico che un discorso è chiuso, è chiuso e non voglio tornarci sopra. E soprattutto, la cosa più importante per me è potermi guardare tutti i giorni allo specchio sapendo di aver difeso il mio ruolo e la mia squadra. Posso perdere le partite, ma non posso e non voglio perdere la faccia”.

Il 26 agosto del 1987, la Lazio affronta la Juventus al Flaminio in Coppa Italia. Dopo la qualificazione ai quarti clamorosamente sfiorata un anno prima (pareggio 0-0 a Torino e poi sconfitta 2-0 all’Olimpico davanti a 70.000 spettatori, maturata negli ultimi 20 minuti), la Lazio al Flaminio mette sotto la Juventus: passa in vantaggio con Galderisi, ma poi è raggiunta da Mauro. Qualche minuto prima dei rigori, vedo Fascetti che in panchina chiede a Muro di entrare, ma il giocatore, stizzito per essere rimasto fuori dall’undici titolare, per tutta risposta si toglie gli scarpini e al suo posto Fascetti fa entrare Nigro. Io vedo la scena e la riporto in un articolo su“Tuttosport”, il giornale per cui lavoro all’epoca. Il giorno dopo, al mio arrivo a Tor di Quinto trovo Fascetti davanti al cancello che mi aspetta. Mi chiama, tira fuori l’articolo custodito nel portafoglio e nasce una discussione molto accesa. Ma quando gli racconto per filo e per segno la scena a cui io ho assistito e che è sfuggita agli altri colleghi, Fascetti sorride e chiude la discussione con una pacca sulla spalla e con una stretta di mano. Io rispetto lui, lui rispetta me. E la stima e l’affetto sono rimasti anche quando ha lasciato la Lazio e ci siamo incontrati nuovamente a Bari, dove lui allena il giovane Cassano e io ogni domenica in cui il Bari gioca in casa faccio l’inviato di TMC. Anzi, il trattamento ricevuto da Calleri, con quel licenziamento brusco e immeritato (che fa infuriare i tifosi e segna una rottura tra il presidente e la gente), ha forse anche aumentato l’affetto e la riconoscenza per questo viareggino un po’ burbero ma profondamente onesto e sincero, poco portato per le relazioni pubbliche con giornalisti e presidenti, ma adorato e rimpianto da quasi tutti i calciatori che sono passati sotto le sue sapienti mani. Cassano in testa.

Pensando a Fascetti, non posso dimenticare quel 9 gennaio del 2000, la sua rabbia e la sua delusione per non esser stato invitato da Cragnotti (se non in extremis) alla festa del Centenario. Me lo confessa all’aeroporto di Bari, mentre siamo seduti in attesa di imbarcarci sul volo per Roma, con un volto in cui non c’è gioia per il successo per 3-0 ottenuto dalla sua squadra contro il Venezia, ma solo fastidio all’idea che noi siamo lì mentre in quel momento a Roma si celebra un grande evento in un Olimpico stracolmo. Parla con rabbia, quasi con le lacrime agli occhi, perché lui la storia della Lazio l’ha scritta e forse l’ha anche salvata in quelle due stagioni in cui si è seduto sulla panchina biancoceleste: prima con quella storica salvezza, poi con quella promozione che ha riportato 25 anni fa la Lazio definitivamente in serie A.

Quindi, auguri Eugenio… E grazie di tutto!

STEFANO GRECO



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