Bandiere al vento da una parte e cartelli di contestazione dall’altra; cori e applausi in una piazza San Silvestro colorata a festa di biancoceleste e di tricolore che fanno da contrasto con insulti e mezzi dei Carabinieri chiamati a difendere Trigoria come se fosse la sede del G8 assaltata dai “black block”. In una sola giornata si sono viste le due anime di una città, l’effetto reale di quella finale del 26 maggio che è stata una sorta di spartiacque per i destini sportivi delle due squadre della Capitale.
Quel gol di Lulic, quel successo e quella Coppa alzata in faccia ai nemici di sempre hanno ridato corpo ad una fiamma che si stava lentamente ma inesorabilmente spegnendo dopo anni di contestazioni e di guerra intestina. Per questo Claudio Lotito dovrebbe rinnovare a vita il contratto al difensore bosniaco, per questo il presidente della Lazio dovrebbe fare un monumento a Vlado Petkovic che è riuscito a tenere insieme i pezzi di una squadra che stava letteralmente morendo per mancanza di rifornimenti adeguati nel momento del bisogno. Senza loro due, Claudio Lotito non avrebbe mai potuto vivere una serata come quella di ieri, non si sarebbe mai potuto permettere di salire su un palco davanti alla folla laziale senza essere sommerso da fischi e insulti. Miracoli di una vittoria, che non cancella tutto ma che attenua i toni, che fa mettere odi e rancori in secondo piano rispetto a quella voglia di Lazio che in tanti troppo a lungo hanno represso.
Ha vinto la sua guerra Claudio Lotito. Che poi l’abbia vinta prendendo la gente per sfinimento, è un altro discorso, ma l’ha vinta. Per tanti, se non per tutti, non sarà mai il presidente della Lazio, quello che intendiamo noi, quello in grado di rappresentare gli ideali del passato, quei valori che hanno portato tanti di noi a scegliere questa squadra anche se non vinceva niente. Non sarà mai sullo stesso piano di gente come Lenzini, di signori come Gian Chiarion Casoni, di uomini amati da tutti come Ugo Longo o di quel personaggio inarrivabile che risponde al nome di Sergio Cragnotti, ma Claudio Lotito ha vinto la sua guerra. Si è imposto. Non è cambiato niente rispetto al 25 maggio, nel senso che chi lo odiava o lo schifava prima continua a provare gli stessi sentimenti, ma quella Coppa ha attenuato tutto, ha sortito l’effetto di un getto di idrante su un fuoco che stava già esaurendo la sua energia distruttiva.
Non sono andato a piazza San Silvestro, ma ho ascoltato quello che succedeva nella piazza. Ho ascoltato i cori, il boato tributato a Lulic, ho sentito il discorso delirante di Lotito, che sbagliando era e piazza ha usato toni di mussoliniana, compreso il “vincere e vinceremo” di ducesca memoria. L’ho visto poi in tv, compresso in quel gessato che rischiava di esplodere con le mani sui fianchi che arringava la folla, beandosi del suo successo. Non ho provato rabbia, ho solo provato pena per l’uomo, per uno che da sempre recita un ruolo nel disperato tentativo di affermarsi e di piacere alla gente. Dategli un microfono, una folla da arringare e magari una telecamera e lui è felice, come un bambino che ha ricevuto in dono il regalo tanto agognato.
Lui ha vinto, noi abbiamo perso. Ma questo per quel che mi riguarda non cambia nulla. Perché non è una coppa alzata al cielo che può cambiare quello che è successo in questi nove anni, perché essere sopportati per mancanza di alternative da un popolo che sarebbe disposto a buttarti a fiume se solo si palesasse qualcuno disposto a rilevare la Lazio, non significa aver vinto, ma solo aver messo a tacere la parte rumorosa che si sta (giustamente) godendo il sapore della vittoria sportiva, gli effetti di un successo che ha cambiato gli equilibri all’interno della città. Che ci sta portando a riempire e riconquistare le piazze di Roma. Ed è giusto così. E’ giusto che la gente festeggi, è giusto che la voglia di Lazio torni a contagiare anche chi ha lasciato da anni lo stadio e che forse non tornerà all’Olimpico neanche dopo questo successo. E’ giusto che le nuove generazioni assaporino fino il fondo il dolce sapore del trionfo, come abbiamo fatto noi in quegli anni straordinari a cavallo tra il secondo e il terzo Millennio.
E’ giusto che le discussioni sulla bellezza o no della nuova maglia restino discorsi da bar tra tifosi e non si trasformino come è successo fino a poco tempo fa in guerre di religione. La maglia blu assomiglia ad un pigiamino attillato? Pazienza, peggio per la Macron che ne venderà di meno, ma è comunque la maglia della Lazio? Non piace la coccarda a sinistra messa ad arte per far risaltare la scritta Macron? Amen, quello che conta è avere quella coccarda sul petto per dodici mesi, ricordare per tutto l’anno e in tutti i derby che ci saranno a chi di dovere chi ha vinto e chi ha perso quel 26 maggio. La Fiorentina prende Gomez e noi Perea? Ci siamo abituati e per non farci il sangue amaro già prima di partire torniamo a fare i tifosi e a sperare o a sognare che possano sbocciare promesse come Keita e Tounkara, oppure che Anderson stupisca tutti affermandosi come ha fatto Hernanes. La squadra è incompleta e non sono stati risolti fino in fondo i problemi che ci hanno impedito di fare in questi anni il salto di qualità? Lo sappiamo, ma sappiamo altrettanto bene di non poter fare nulla per colmare questa lacuna e tantomeno per convincere chi può a costruire una Lazio in grado di lottare fino in fondo per entrare in Champions League, perché con chi sta oggi alla guida della Lazio la parola scudetto è e resterà per sempre tabù.
Potrei andare avanti all’infinito, ma mi fermo qui. Perché continuerò a fare il mio lavoro, quello di scovare magagne e raccontare quello che altri per convenienza o per timore non hanno mai raccontato e che non racconteranno mai. Io non farò nessun passo indietro, non perché voglio imitare il soldato giapponese che finita la guerra continuava ad aspettare il nemico difendendo l’isoletta disabitata nel Pacifico, ma perché raccontare i fatti non significa attaccare la Lazio e tantomeno volere il male della Lazio. Perché c’è stato da difendere (in tutti i sensi) la Lazio io c’ero, mentre altri che chiacchierano se ne stavano a casa. Perché se qualcuno cercherà di utilizzare Mauri per fare lo sgambetto alla Lazio, magari usando pesi e misure diversi da quelli usati con altre società, Napoli in testa, io starò nuovamente in prima linea al fianco della Lazio. Perché il “muoia Sansone con tutti i Flilistei” non l’ho mai sposato, ma credo nella possibilità di un futuro diverso, con una Lazio senza Lotito e quindi finalmente senza barriere a separare un popolo che, ad arte, è stato diviso perché era troppo forte. Questo penso, questo farò. Che piaccia o no a qualcuno… Forza Lazio!
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