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Sono passati 37 anni, quasi una vita, ma rivedendo le foto e il volto sorridente di quell’angelo biondo che sventola ogni domenica in Curva Nord, sembra ieri quando Luciano Re Cecconi è volato via, all’improvviso, in una fredda sera di metà gennaio. Ogni cittadino americano ricorda alla perfezione dove si trovava e che cosa stava facendo l’11 settembre del 2001, quando quei due aerei si sono abbattuti sulle Torri Gemelle a New York; ogni cittadino italiano della mia generazione, si ricorda alla perfezione dove stava il 2 agosto del 1980 quando alle ore 10,25 quella bomba ha devastato la stazione di Bologna. Ci sono episodi nella vita che restano per sempre fissati nella mente, momenti in cui il tempo sembra fermarsi e con lui anche il tuo respiro. Per me, quel giorno è il 18 gennaio del 1977.

Sono appena tornato a casa dagli allenamenti e aspetto di andare a cena. Sono contento, perché quel pomeriggio ho fatto un salto a Tor di Quinto e ho visto Luciano Re Cecconi giocare tutta la partitella. “A Cesena gioca” ci siamo detti tra amici, felici, con in tasca già la prenotazione per quella trasferta in programma il 30 gennaio. “Cecco” è reduce da un brutto infortunio rimediato il 24 ottobre all’Olimpico contro il Bologna. Un infortunio che a detta di Renato Ziaco (che ama esagerare sui tempi di recupero, per poi far passare come miracolosi i rientri in campo a tempo di record dei suoi ragazzi), doveva tenerlo fuori almeno fino a marzo. A metà gennaio, invece, “Cecco” è già pronto, in forma e con il sorriso sulle labbra. Il sorriso di chi torna alla vita. Ad un certo punto, a casa arriva una telefonata. Sento mio padre che risponde, poi dice: “Ma sei sicuro?” poi il silenzio. Vedo la porta che si spalanca e dietro compare mio padre a testa bassa, con gli occhi gonfi e mi sussurra: “Stefano, è successa una brutta cosa, hanno sparato a Re Cecconi”.

E’ l’alba degli Anni di Piombo, Roma è una città in cui si spara tutti i giorni, ma a cadere sono ragazzi di destra e di sinistra, poliziotti, carabinieri, non “eroi invincibili”. Perché ai miei occhi, Luciano Re Cecconi è come il “Mitico Thor” dei fumetti della Marvel, il biondo vichingo “Dio deltuono” creato dal genio di Jack Kirby e Stan Lee. Si può ferire, ma poi si rialza sempre e vince. Quella sera, invece, Luciano Re Cecconi è rimasto a terra, non si è rialzato più. E con lui, è morta una buona parte del ragazzo spensierato che c’è in me. Ricordo quei minuti di speranza davanti al televisore, a pregare che non fosse nulla di grave, poi, proprio quando stanno per andare i titoli di coda, l’annuncio: “Luciano Re Cecconi è morto”. E sento quella fitta dentro, impossibile da dimenticare.

Il giorno dopo a Roma il cielo è nero e piove. Scuola è a 400 metri da casa, ma quel giorno il tragitto sembra lungo come quello di una maratona. Le gambe pesanti come il cuore e nella testa quelle parole: “Luciano Re Cecconi è morto”, la stessa frase sparata sulle locandine dell’edicola di piazza Gentile da Fabriano a metà strada tra casa e scuola. Quel giorno ho compito in classe di italiano e il tema di cronaca è: “Luciano Recconi, pensieri e riflessioni su una morte assurda”.Scrivo più di sei pagine protocollo fitte, fitte, di getto, trasferisco con l’inchiostro in quelle righe tutto il mio dolore per la perdita del mio idolo d’infanzia. Scrivo forse il più bel tema della mia vita, prendo 9. Avrei preferito prendere 8, come il suo numero di maglia.

In quella stagione maledetta, Luciano Re Cecconi si è infortunato il 24 ottobre, all’Olimpico, al 20’ minuto della sfida stravinta con il Bologna. Quella, resta l’ultima delle sue 109 partite di campionato giocate con la maglia della Lazio. L’ultima partita di una carriera che gli ha regalato la gioia di uno scudetto che lo ha reso immortale e l’esordio con la maglia azzurra, il 28 settembre del 1974 a Zagabria contro la Jugoslavia. L’ultima partita del RE, per dirla come Carlo D’Amicis nel suo splendido libro “Ho visto un re”, dedicato a “Cecco”. Ma sulla strana storia di quel cognome è Franco Melli a fare chiarezza, in un’intervista che mi è rimasta impressa:

“Quel Re davanti al mio cognome, è un regalo del re. Vittorio Emanuele II° passò per Busto Arsizio e per Nerviano e gradì la buona cucina, l’accoglienza ricevuta. Allora volle beneficiare la gente delle nostre campagna lombarde con un dono simbolico ma indelebile. Così, i Cecconi diventarono pomposamente Re Cecconi, i David Re David, in base al riconoscimento stampato. Il regalo di Vittorio Emanuele II°, trasmesso di generazione in generazione, l’ho accolto con orgoglio. E’ una ricchezza che il mondo non potrà mai portarmi via. Ho il cognome ornato. E suona bene”.

Quel Re non glielo porta via nessuno, quel sorriso che riempiva il cuore, glielo hanno portato via il 18 gennaio, in circostanze mai del tutto chiarite. Dopo mesi passati ad allenarsi in solitudine al Flaminio, dopo aver versato le lacrime che può versare un figlio per un padre il giorno della morte di Tommaso Maestrelli, quel martedì 18 gennaio del 1977 “Cecco” ha giocato per intero la partitella di allenamento, affondando i contrasti per provare la resistenza del ginocchio. Felice per non aver sentito nessun dolore, prima di lasciare il campo, incrociando Renato Ziaco, il medico della Lazio, gli dice sorridendo: “Va bene dottore, il ginocchio è a posto, non ho sentito nessun dolore, sono pronto. Domenica a Cesena gioco e lascio tutti a bocca aperta”.

“Cecco”, felice, lascia il campo di Tor di Quinto in compagnia di Pietro Ghedin e Renzo Rossi. I tre incrociano Renzo Garlaschelli e lo invitano ad unirsi a loro per una serata a cena fuori, per festeggiare. Ma Renzo ha altri impegni, ringrazia e va via, seguito poco dopo anche dall’altro Renzo, Rossi. Re Cecconi e Ghedin, rimasti da soli, vanno da un loro amico comune, Giorgio Fraticcioli, per fare due chiacchiere e tirare fino all’ora di cena. Fraticcioli, proprietario di una profumeria, li invita ad accompagnarlo da un cliente a cui deve consegnare dei flaconi in una gioielleria di via Nitti, al Fleming, il quartiere dove abitano quasi tutti i giocatori della Lazio, situato sulla collina che domina dall’alto il campo di allenamento di Tor di Quinto.

I tre entrano poco prima dell’orario di chiusura, intorno alle 19,30. Luciano, abituato a fare scherzi, ne suggerisce uno a Fraticcioli e a Ghedin. Uno scherzo che, in una Roma sconvolta da rapimenti, rapine, sparatorie a colpi di P38 tra forze dell’ordine ed estremisti di destra e di sinistra, purtroppo gli sarà fatale.

Fraticcioli e Ghedin entrano per primi, Re Cecconi alle loro spalle e con il bavero del cappotto alzato esclama: “Fermi tutti questa è una rapina”Il gioielliere, Bruno Tabocchini, già vittima in quel periodo di un paio di rapine, agisce di riflesso e scambiando Re Cecconi per un vero rapinatore quasi senza guardare estrae la pistola che tiene sotto il bancone del negozio e spara.

Re Cecconi, colpito in pieno petto, con il volto pietrificato dallo stupore e dal dolore cade mormorando: “Era uno scherzo, era solo uno scherzo”. Ghedin fa appena in tempo ad alzare le mani e farsi riconoscere. Poi si gira verso il compagno dicendogli di alzarsi che lo scherzo è terminato, ma si accorge che dal torace di Re Cecconi esce sangue a fiotti. Il proiettile, infatti, ha reciso in modo letale l’aorta. Udendo lo sparo e le grida, i clienti del bar d’angolo che dà su via Flaminia escono di corsa, qualcuno ferma una pattuglia della polizia che, a sirene spiegate, porta “Cecco” al San Giacomo dove arriva ormai in fin di vita. Mezz’ora dopo quello sparo, alle 20 circa, Luciano Re Cecconi muore, a 28 anni appena compiuti, facendo sprofondare nel dramma la sua famiglia, l’ambiente laziale e tutto il mondo del calcio. La notizia a Roma si sparge in pochi minuti, con un invisibile telefono senza fili. Tutti si preoccupano di proteggere la moglie di “Cecco”, Cesarina, ma anche i figli: Stefano, di due anni e Francesca, nata da pochi mesi. In ospedale arrivano Lenzini e Pulici, poi alla spicciolata gli altri compagni, tutti pietrificati dal dolore. Ghedin, è sotto shock e riesce a malapena a rilasciare una deposizione ai magistrati incaricati dell’inchiesta. Questa è la versione ufficiale, ma a distanza di 26 anni restano ancora tanti lati oscuri in questa vicenda.

A meno di 50 giorni dall’addio a Tommaso Maestrelli, Roma si ferma nuovamente per dare l’ultimo saluto ad un altro dei protagonisti dello scudetto. Al funerale, celebrato nella basilica di San Pietro e Paolo, è presente una folla immensa e silenziosa. Il silenzio si rompe solo quando la bara di Luciano Re Cecconi viene portata a spalla dai compagni dentro la basilica. In prima fila c’è Giorgio Chinaglia, il grande rivale di “Cecco”, che vive a New York, ma che appena appresa la notizia della morte dell’ex compagno ha preso il primo volo diretto a Roma. Processato per direttissima, Tabocchini viene assolto dall’accusa di “eccesso colposo di legittima difesa”, poiché secondo i giudici ha sparato per “legittima difesa putativa”. Quella sentenza scatena un accesissimo dibattito, commentato così sulle pagine de Il Corriere dello Sport dall’allora direttore Giorgio Tosatti.

“La morte di Re Cecconi rappresenta un dramma cui nessuno può sentirsi estraneo: è la folgorante testimonianza della nevrosi nella quale viviamo. Di queste nevrosi si trovano prove anche nei commenti della tragedia: il cinismo si sostituisce alla pietà, la riprovazione per la stupidità dello scherzo è superiore allo sdegno per il modo in cui è stata stroncata la vita di un uomo”.

Il 30 gennaio, a Cesena, si ripete la scena straziante vissuta un mese e mezzo prima a San Siro, con i giocatori della Lazio con il lutto al braccio che sembrano quasi pietrificati dal dolore, con i tifosi che sugli spalti piangono, con quel minuto di raccoglimento in cui l’unico rumore è dato dalle note strazianti di una tromba che intona Il silenzio.

La salma di “Cecco”, viene portata al cimitero di Nerviano, dove a distanza di più di 30 anni dalla sua morte è ancora meta costante di pellegrinaggio da parte di tanti, tantissimi tifosi laziali che non hanno dimenticato quell’angelo biondo e le sue imprese sul campo verde. E quando si ferma nel silenzio di quel piccolo cimitero per rendere omaggio al campione, chiudendo gli occhi possono rivedere le immagini di quel Lazio-Milan del 30 dicembre e risentire il boato di quel gol segnato da “Cecco” allo scadere. Un boato interminabile, secondo per intensità solo a quello del gol di Fiorini.

STEFANO GRECO



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