primaveraSe non è un vero e proprio appuntamento con la storia, poco ci manca. Perché vincere uno scudetto, anche se solo a livello di squadre Primavera, non è cosa di tutti i giorni. Perché quel triangolino tricolore è un trampolino di lancio per tuffarsi nel mondo del calcio che conta, quello dei professionisti. Un’occasione da non perdere per i ragazzi, ma anche per le migliaia di tifosi laziali che oggi marceranno verso Gubbio, con la speranza di festeggiare un altro trionfo in queste settimane di adunate popolari e di feste continue. Perché di festeggiare non ci si stanca mai…

Da Bollini a Bollini, dodici anni di attesa per mettere le mani sul quinto tricolore della storia. Dopo stagioni di anonimato e di speranze autunnali regolarmente tradite allo sbocciare dell’estate, la Lazio oggi a Gubbio torna a giocarsi lo scudetto Primavera, la nona della storia. Lo fa un anno dopo il traguardo sfiorato e poi svanito ad un passo dal traguardo un anno fa contro l’Inter, con una squadra molto diversa da quella dello scorso anno. Non è proprio una finale annunciata, anche se nei programmi estivi c’era quello di costruire una squadra un po’ “vecchia” per gli standard attuali del campionato Primavera, ma in grado di poter arrivare fino in fondo, perché questi successi sono importanti non solo per arricchire la bacheca, ma per aumentare il valore di una rosa qualitativamente importante.

Certo, siamo lontani anni luce da quella squadra allenata da Paolo Carosi che vinse davanti a quasi 50.000 spettatori all’Olimpico il primo tricolore nel lontano 1976. Quella era Lazio di Manfredonia e di Giordano, rinforzata dal “fuoriquota” Vincenzo D’Amico. Quella capace di battere in semifinale da Roma di Bruno Conti e Di Bartolomei, in tempi in cui andare a vedere la Primavera a volte era più divertente che andare a vedere la prima squadra per la qualità del gioco e perché in campo c’era gente che aveva un destino da campione già tatuato sulla pelle. Certo, questa non è neanche la Lazio favolosa del 1995, quella guidata da Caso in panchina e in campo da gente come Nesta e Di Vaio, un gruppo eccezionale costruito da Volfango Patarca che ha portato ben 9 giocatori a esordire tra i professionisti: Roma, Cristiano, Franceschini, Iannuzzi, Orfei, Lucchini e un certo Tiribocchi. Un vero e proprio patrimonio.

Ma anche se non siamo ai livelli della Primavera del 1995, in questa squadra c’è molta qualità. Quella di oggi, è una squadra sicuramente più forte di quella che nel 2001 vinse a sorpresa lo scudetto battendo in finale il Pescara. Di quel gruppo allenato sempre da Bollini, solo due giocatori hanno poi esordito in Serie A e ancora oggi giocano tra i professionisti: Domizzi, oggi all’Udinese e Berrettoni, che fino alla passata stagione era il capitano del Verona.

In questa Lazio di Bollini ci sono elementi che già a partire da luglio potrebbero fare il grande salto in prima squadra, ripercorrendo la strada di Onazi. Vale per Rozzi, titolare inamovibile in Nazionale ma assente questa sera a causa di un infortunio rimediato proprio nella partita d’esordio con il Torino. Vale per Cataldi e Lombardi, gli altri due fiori all’occhiello del vivaio laziale, ma anche e soprattutto per Keita Balde Diao e Mamadou Tounkara. Classe 1995 il primo, addirittura 1996 il secondo, le due perle nere approdate a Formello direttamente dalla “cantera” del Barcellona, perché anche in Catalogna a volte sbagliano e si fanno sfuggire dei talenti puri. Sì, perché Keita e Tounkara hanno tutte le carte in regola per diventare giocatori di grande livello, per dar corpo al sogno di tanti tifosi di poter vedere una Lazio più giovane e con in rosa tanti ragazzi prodotti del vivaio. Anche se sembra un sogno visto che solo in questa stagione siamo riusciti a perderne addirittura due dopo averli lanciati nel grande calcio: Diakité e Cavanda. Perché questo è il futuro del calcio, soprattutto in tempi di crisi. Quel futuro anticipato dai club spagnoli e tedeschi, che investono capitali importanti nei settori giovanili per costruirsi i campioni in casa e a basso costo. Quello che in passato faceva la Lazio, creando un cordone ombelicale ancora più saldo tra i tifosi e la squadra.

Il sogno di tutti i laziali, almeno quelli della mia generazioni che la domenica prima di andare a vedere la Lazio all’Olimpico alle 10 di mattina si davano appuntamento a Tor di Quinto per seguire al “Maestrelli” i campioni del futuro, è quello di poter tornare a vedere una prima squadra costruita in casa. Come quella Lazio allenata da Bob Lovati (con Oddi come secondo) che nella stagione ’78-’79 arrivò a far giocare in Serie A addirittura 11 giocatori costruiti in casa su 23 utilizzati. Giordano, Manfredonia, D’Amico, Agostinelli, Tassotti, Cantarutti, De Stefanis, Perrone, Fantini, Ferretti e Labonia. Un sogno, quasi utopia di questi tempi in cui se non hai un nome straniero fatichi il triplo per conquistare un posto al sole. Ma quanto sarebbe bella una Lazio con un allenatore dal passato laziale in panchina e con nella rosa ragazzi costruiti in casa come Berardi (ora a Verona), Rozzi, Onazi, Cataldi, Lombardi, Keita e Tounkara? Perché lo scudetto che ci giochiamo questa sera a Gubbio con l’Atalanta è importante sì, ma solo per la bacheca. La cosa più importante, soprattutto in tempi di crisi economica e di identità, è costruirsi un futuro dentro casa, poter affidare i sogni dei tifosi a ragazzi che crescono con la Lazio nel cuore e un’aquila tatuata sulla pelle…

STEFANO GRECO – LAZIOMILLENOVECENTO



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