BORGONOVOHo conosciuto la SLA alla fine degli anni novanta, quando ai tempi in cui lavoravo a TMC quella malattia terribile ha colpito una mia collega, una giovane e splendida produttrice di nome Caterina. L’ho vista perdere giorno dopo giorno la forza, l’uso degli arti periferici e poi la parola. Ho visto quello splendido fiore avvizzire come una pianta a cui viene negata sia l’acqua che l’energia del sole. Ho capito, ancora prima di conoscerlo da ammalato, perché Stefano Borgonovo ha chiamato questa malattia “la stronza”: perché nella vita dagli “stronzi” non c’è difesa, se non quella di evitarli. E purtroppo, la SLA non puoi evitarla. Non c’è nessun tipo prevenzione, non si capisce cosa la provoca e perché colpisce certe persone, ma soprattutto è “stronza” perché ti succhia vita e energie giorno dopo giorno e non esiste nessuna cura.

Ho conosciuto Stefano Borgonovo nel 2009, un anno dopo che aveva annunciato pubblicamente di esser stato colpito dalla Sclerosi Laterale Amiotrofica, che in Italia oramai viene chiamata la“malattia dei calciatori”, perché sono tanti, troppi gli ex giocatori di calcio più o meno famosi aggrediti alle spalle dalla SLA, tra cui anche Signorini, ex bandiera del Genoa scomparso nel 2002 a soli 42 anni. Stefano Borgonovo è stato più “fortunato”, è arrivato alla soglia dei 50… Ho conosciuto Stefano e sua moglie Chantal nell’estate del 2009, in occasione dei Mondiali di Baseball. Lavoravo all’organizzazione di quell’evento e il direttore generale Andrea Abodi (oggi presidente della Lega Calcio di Serie B), decise che quell’evento doveva offrire una cassa di risonanza alla “Fondazione Stefano Borgonovo”, che già da un anno stava organizzando eventi per raccogliere fondi a favore della ricerca ma anche per sostenere le famiglie delle persone colpite da questa malattia che non ti lascia scampo. Una fondazione di cui fanno parte tanti grandi campioni del passato, a partire da Roberto baggio, che per Stefano Borgonovo era stato molto più un fratello che un semplice compagno di squadra o un amico. Un’amichevole allo stadio di Firenze tra Fiorentina e Milan, le due squadre più importanti in cui ha giocato Stefano Borgonovo, con l’immagine di Roby Baggio che spingeva quella carrozzella su cui era inchiodato l’amico sfortunato.

Andai a quell’incontro sapendo cosa avrei trovato, perché come ho scritto prima purtroppo avevo già conosciuto la “stronza” e i suoi terribili effetti. Volevo che Stefano e Chantal scrivessero un piccolo articolo da mettere sulla rivista ufficiale della manifestazione, ma Stefano faticava a scrivere anche con l’uso di quel macchinario che trasforma gli sguardi in parole, perché sono gli occhi puntati sullo schermo e su quella tastiera a comporre le frasi. Troppo lungo, troppo difficile e troppo faticoso. Chantal mi disse: “Dobbiamo fare qualcosa in concreto per vincere la SLA ed aiutare le persone che soffrono per questa malattia”. E quelle sue parole sono state l’unico virgolettato di quell’articolo, unite ad una frase che era diventata il simbolo della voglia di vivere di Stefano Borgonovo: del suo amore per il calcio e per la vita, ma anche della disperazione di un atleta che all’improvviso si era ritrovato a dipendere in tutto e per tutto dagli altri, anche per bere un sorso d’acqua.

“Io, se potessi, scenderei in campo adesso, anche su un semplice prato o sul campo di un oratorio. Perché io amo il calcio”.

Una frase che è un atto d’amore e al tempo stesso quasi un urlo di disperazione, di un ragazzo e di un uomo che comunque non ha mai perso la voglia di vivere, di scherzare e di interagire con il prossimo, scrivendo piccoli articoli o mandando messaggi alle varie trasmissioni sportive. Un uomo che con il suo coraggio e con il suo esempio ci ha dato una lezione e ha arricchito tutte le persone che hanno avuto la fortuna di incontrarlo anche solo una volta e per poche ore. Per rendere un piccolo omaggio a Stefano Borgonovo, quel giorno gli portai il sonoro del discorso di Lou Gehrig del 4 luglio del 1939, ovvero del giorno in cui uno dei più grandi giocatori di baseball di tutti i tempi annunciò alla nazione di esser stato colpito da questa malattia. Noi l’abbiamo conosciuta comeSLA, ma negli Stati Uniti da quasi 75 anni questa malattia è chiamata il “morbo di Lou Gehrig”, in memoria del primo atleta famoso colpito dalla “stronza”. E per rendere omaggio a questo campione, ma soprattutto a questo uomo straordinario che ho avuto la fortuna di incrociare sui campi da cronista di calcio e poi di conoscere in modo più approfondito quando era già ammalato, oggi voglio dedicargli quel discorso di Lou Gehrig, quel testamento sportivo e umano pronunciato il 4 luglio del 1939 e che a distanza di trequarti di secolo è ancora attuale e commovente, soprattutto quando dalle labbra di quell’uomo piegato dalla malattia e costretto a lasciare lo sport che amava come la sua vita uscì la frase “oggi mi sento l’uomo più fortunato della Terra”http://www.youtube.com/watch?v=-uXsPvf9zq4

Sei uscito di scena nel giorno in cui la tua Nazionale scendeva in campo. E forse non è stato un caso. Come non è stato purtroppo un caso se la FIFA, quell’ammasso di burocrati fintamente attenti al sociale, ha dedicato tutto il pre partita di Italia-Spagna alla “lotta contro il razzismo”, ma ha negato agli azzurri la possibilità di ricordarti con un minuto di silenzio. Un ultimo schiaffo che non meritavi. Ciao Stefano, che la terra ti sia lieve…

“Amici, nelle due ultime settimane sarete sicuramente venuti a conoscenza del difficile momento che sto attraversando, ma voglio dirvi che oggi mi sento l’uomo più fortunato della terra.
Sono stato presente sul campo da baseball per diciassette anni e ho sempre ricevuto affetto e incoraggiamenti da voi che siete i miei fan.
Guardate questi grandi uomini. Chi di voi non vorrebbe essere al punto culminante della propria carriera solo per paragonarsi a loro almeno un giorno nella vita? Certo che sono fortunato.
Chi non considererebbe un onore il fatto di aver conosciuto Jacob Ruppert? E anche Ed Barrow, la persona più importante nel baseball? O il fatto di aver trascorso sei indimenticabili anni con Miller Huggins, il mio grande amico?
Oppure di aver trascorso i successivi nove anni con quel fantastico leader, brillante studente di psicologia e miglior manager che il baseball abbia mai avuto, Joe McCarthy? Certo che sono fortunato.
Quando la squadra dei New York Giants, una squadra che per batterla daresti anche il tuo braccio destro, e viceversa, ti fa un regalo, questo è fantastico.
Quando tutti fino agli addetti del campo o quei giovani vestiti di bianco si ricordano di te perché hai vinto tanti premi, questo è fantastico.
Quando avete una suocera meravigliosa che si schiera a vostro favore nei battibecchi con sua figlia, questo è fantastico. Quando vostro padre o vostra madre lavorano sodo per tutta la vita per darvi un’educazione o per far sì che voi possiate allenarvi in qualche sport, è una benedizione.
Quando al vostro fianco avete una moglie forte che vi sostiene e che dimostra molto più coraggio di quello che abbiate mai potuto immaginarvi, è la cosa più bella che si possa desiderare.
Quindi, concludo dicendo che forse sto attraversando un brutto periodo, ma ho tantissimo per cui continuare a vivere”.

STEFANO GRECO



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