DIASDa Sao Bernardo alla Città Eterna. Dai clienti serviti ai tavoli ai più grandi attaccanti fermati sul campo. La vita di André Dias è un romanzo di formazione. Uno di quei racconti in cui il protagonista è chiamato a superare mille avversità, a scalare mille muri minacciosi che ostruiscono la via. L’obiettivo finale? Uscirne più forti e vincitori, toccare con mano i sogni per cui hai sempre lottato. Nel caso del numero 3 della Lazio, anche zittire le voci di chi gli consigliava: “Lascia perdere con il calcio, non fa per te”. La prima volta che sentì rivolgersi questa frase, André aveva 18 anni. Aveva appena concluso il suo primo provino da calciatore. A quell’età, quanti ragazzi già vedono infrangersi le proprie aspirazioni da professionisti? E invece lui proprio allora cominciava a muovere i primi passi. Dalla Palestra di Sao Bernardo al Paranà, quindi il Flamengo: il ragazzo che a 15 anni si barcamenava tra il lavoro di cameriere e quello di commesso, ce l’avrebbe fatta a sfondare nel calcio. Il San Paolo, la fascia di capitano, una bacheca stracolma di trofei: la rivincita era completa. Anzi, ancora no: mancava il salto in Europa, André bramava dalla voglia di misurarsi nei campionati più difficili e prestigiosi del mondo. Ed ecco nel 2010 la chiamata della Lazio. Quella che gli ha cambiato per sempre la carriera e la vita. Nel suo romanzo di formazione, Dias ha ben chiaro dove porre la parola fine al capitolo Quand’ero calciatore: “Voglio chiudere la mia carriera alla Lazio”. Più chiaro di così. Lo afferma, lo ribadisce con tutta la convinzione possibile in un’intervista esclusiva che il centrale biancoceleste ha concesso a Lalaziosiamonoi.it. Nelle sue risposte, c’è tutto il suo mondo. Un mondo per il quale lui reclama ancora i colori biancocelesti.

André, sei arrivato in Italia nel gennaio 2010, abiti a Roma ormai da più di quattro anni. Ci racconti un po’ la tua vita fuori dal campo? Come si svolge la tua giornata? “E’ sempre la stessa! (ride, ndr). Mi sveglio presto la mattina per portare i bambini a scuola. Poi vado a Formello per gli allenamenti, quindi torno subito a casa. Mi piace andare con mia moglie e i miei figli al centro commerciale, al cinema. Tutte abitudini normali insomma”.

Ti facciamo questa domanda perché tempo fa si parlava di un André Dias affetto dasaudade. Eppure, col passare del tempo, ti abbiamo visto sempre più sorridente e pronto in campo. Quindi la verità è un’altra: a Roma stai bene…Sicuramente le cose sono cambiate. All’inizio ambientarsi penso che sia difficile per tutti gli stranieri, con lingua e cultura diverse. Quando sono arrivato qui, mia moglie era incinta di quattro mesi, era un momento delicato. Poi la situazione alla Lazio, a livello di classifica, non era confortevole. Ero consapevole di tutto questo, ma ho accettato perché giocare in una squadra europea è sempre stato il mio sogno. Dopodiché sono nati i miei figli, io ho iniziato a imparare l’italiano. E poi Roma è molto simile a una città come Brasilia”.

 

Ritorniamo all’anno in cui sei arrivato alla Lazio. Tare volò in Brasile a caccia di un difensore. Nella lista c’era anche Rever, ma alla fine la scelta è ricaduta su di te. Mi racconti come sei riuscito a convincere il ds biancoceleste? “A dire la verità, Tare mi seguiva già da due anni. Non era la prima volta che la Lazio veniva a San Paolo per chiedere informazioni su di me. Ma il presidente non voleva lasciarmi andare, anche perché ero il capitano. Tare fu molto sincero con me, mi disse: “Sono venuto qui per prendere Rever, è la mia prima opzione. Però se non riusciamo ad acquistare lui, tu sei la seconda opzione. Gli dissi che per me non c’erano assolutamente problemi. Rever è un grandissimo difensore, potrebbe giocare in qualsiasi squadra di livello in Italia. Così sono rimasto in attesa, il destino mi ha portato a Roma”.

Come ti trovi con Edy Reja? Di lui hai vissuto due versioni: la prima quando sei arrivato, la seconda quando è tornato sulla panchina della Lazio e ti ha rimesso al centro della difesa…“Con il mister ho un bellissimo rapporto. Mi conosce, sa quando sto bene o quando sto male. Lavorare con un allenatore così ti facilita la vita. Questo per me ha fatto la differenza: avere un allenatore che abbia fiducia in me e nel mio lavoro. E prima non era così…”

E il pensiero corre a Vladimir Petkovic: con il tecnico di Sarajevo, inutile negarlo, non ti sei trovato benissimo… “Con lui non ho mai avuto un rapporto. Non perché non volessi io e neanche per una sua particolare responsabilità. Magari era per il suo modo di pensare, puntava più sui giovani che sui giocatori più esperti. Una scelta legittima, per carità. Ma la cosa che mi dispiace di più è come mi ha trattato. Dopo tutti gli anni trascorsi qui, un po’ più di rispetto sarebbe stato giusto. Io sono uno che se non gioca sta male. Anche Reja lo sa: quando mi capitava di avvertire un fastidio incredibile, prendevo dei farmaci solo per poter giocare. Sbaglio magari a fare questo, perché non bisogna fare sforzi quando devi guarire da lesioni”.

C’è chi nutre dei dubbi su di te per quanto riguarda la carta d’identità. Però poi quando entri in campo, l’età neanche si nota… “Io mi sento molto bene. Se dico che non noto la differenza rispetto a dieci anni fa, direi una bugia. Però, infortuni a parte, mi sento molto bene fisicamente. Quando gioco, non vedo molta differenza rispetto a un giovane. Quello che non capivo è perché non venissi impiegato solo perché ero più anziano”.

Con la coppia formata da te e Biava, Reja ha trovato la ricetta giusta. Qual è invece la ricetta tua e di Beppe? “Giocare con Beppe è molto facile, è un giocatore molto intelligente. Dall’inizio ho capito subito come giocava, è uno che va sempre in anticipo. L’esperienza fa la differenza. Io lo conosco e lui mi conosce perfettamente. Quando lui va in anticipo, io già so che devo andarlo a coprire e viceversa. Se avete notato, io e lui neanche parliamo in campo, basta guardarci”.

Tu e Biava avete vissuto quasi la stessa storia alla Lazio, ora entrambi avete il contratto in scadenza. Tu cosa ti aspetti? C’è chi dice che vuoi tornare in Brasile… “Non è vero che voglio tornare in Brasile. E’ chiaro che devo valutare anche le proposte che mi arrivano dai club del mio Paese, ma il mio desiderio è di rimanere qua, di finire la carriera alla Lazio. Questo è il pensiero mio, di mia moglie e dei mie figli che frequentano la scuola qui. Spero di rinnovare ancora per un altro anno. In queste partite che rimangono, spero di giocare bene. Lo ribadisco, non ho mai dichiarato di voler tornare in Brasile. I miei figli parlano meglio in italiano che in portoghese, anche mia moglie si trova benissimo. Non mi ci vedo in Brasile, cercherò di fare di tutto per finire la mia carriera alla Lazio”.

In cima a tutto, quindi, c’è la Lazio. Ti aspetti una chiamata? “Il mio primo obiettivo è rimanere alla Lazio. Non è né quello di tornare in Brasile né di andare in un altro club italiano. Dovrei ricominciare da capo, ed è sempre difficile. Aspetto con ansia una chiamata da parte del presidente. Lotito mi ha fatto una battuta sul contratto dopo Genova. Spero che ci sia la possibilità di rinnovare, resto a disposizione”.

Com’è il tuo rapporto con Lotito e Tare? Con entrambi non ho mai avuto problemi. Coltivano forse questa idea di aspettare, per vedere anche come finisce il campionato. Io sono d’accordo sul fatto che devono arrivare giocatori più giovani. Però penso anche che l’esperienza di giocatori come me o come Biava sia un punto di forza per questa squadra”.

 

Quale vittoria ti porti maggiormente nel cuore e quale partita, invece, rigiocheresti? “La vittoria più bella è il derby deciso da Klose all’ultimo minuto. Quando ho visto i nostri tifosi esultare, i giocatori in panchina che correvano ad abbracciare Miro, non ho mai visto una cosa del genere in 15 anni di carriera! La partita che ricordo con meno piacere invece è quella in casa del Borussia, in cui ho causato due rigori e sono stato espulso. E’ stata la partita più brutta della mia carriera”.

C’è tanta differenza tra calcio italiano e brasiliano? “Sì tanta. Come difensore, è più facile giocare in Italia, c’è tanta tattica. Ogni giocatore mette in pratica quello che gli chiede l’allenatore, la squadra è compatta. In Brasile è diverso. C’è la tattica, ma i giocatori non obbediscono così tanto. Mi è capitato anche di giocare come punta!”.

Sei rimasto dispiaciuto della partenza di Hernanes? Pensi che Felipe Anderson possa ripercorrere le sue gesta? “Siamo amici. Erano nove anni che giocavamo insieme, uscivamo sempre insieme. Felipe è appena arrivato, è giovane ancora, è molto timido. E’ all’inizio, secondo me è più facile per un difensore adattarsi in Italia che per un giocatore offensivo. Per questo credo che abbia un po’ più di difficoltà, gli spazi sono corti. Potrà crescere ancora molto, il prossimo anno sono sicuro che farà meglio”

Quanto conta la fiducia nelle prestazioni del tuo giovane compagno di squadra? “Prima pensavo che la fiducia fosse un fattore secondario, ma se non senti la fiducia non riesci a giocare nel modo in cui sei abituato. Con me Reja ha avuto fiducia e sono cambiato. La stessa cosa vale per lui: Reja l’ha impiegato nell’ultima partita, piano piano anche lui troverà la sua strada”.

Questa è una stagione davvero strana: il trionfo contro la Roma del 26 maggio non ha sortito gli effetti sperati e l’inizio è stato difficile… “Quando abbiamo vinto la Coppa Italia, dopo lì forse ci siamo sentiti un po’ appagati. Vedevamo i tifosi festeggiare, noi giocatori anche inconsciamente ci siamo montati un po’ la testa e abbiamo cominciato male. Il 50-60% della squadra non aveva un rapporto così buono con lo staff tecnico in generale”.

Cosa ti aspetti ora dal finale di campionato? Non sarà facile, ma finché avremo la possibilità di raggiungere l’Europa, cercheremo di ottenere i punti necessari”.

 

Capitolo Mondiale, il tuo Brasile è tra le favorite?“E’ la competizione che tutti aspettano. Spero che faremo una bella figura, ma non sono così convinto…”

Cosa farai una volta appesi gli scarpini al chiodo? “Con il calcio non mi piacerebbe continuare a lavorare, farei la stessa vita che faccio oggi. Vorrei stare più vicino alla mia famiglia. Ancora non mi sono fermato per decidere”. 



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