I funerali “in forma strettamente privata” di Fabrizio Piscitelli, capo ultras laziale vilmente ucciso mercoledì scorso al parco degli Acquedotti con un colpo di pistola, si celebreranno alle 6 del mattino di martedì 13 settembre nella cappella del cimitero Flaminio, in via Flaminia, “con tutte le cautele atte ad assicurare la tutela dell’ordine pubblico e della sicurezza dei cittadini”. E’ quanto disposto dal questore di Roma Carmine Esposito. Scelta motivata da “ragioni di ordine e sicurezza pubblica”. In barba alla volontà della famiglia, in particolare della sorella di Diabolik, che annuncia un imminente ricorso al TAR.
Insomma, alle ore 6 del mattino, senza compartecipazione di vecchi amici, conoscenti e compagni di tifo e trasferte. Uscire di scena come un ladro, come se, da morto, si potesse sobillare una rivolta e sconquassare il patetico, ipocrita mondo dei vivi. “Noi siamo gente seria, apparteniamo alla morte” direbbe Totò nella sua “Livella”, è questo che desideriamo che stesse pensando Fabrizio. Già, perché al netto dei suoi peccati e dei reati da lui commessi (non lo sappiamo, non ci interessa, non siamo investigatori né magistrati), l’onore della morte e il diritto di un ultimo, graffiante saluto, non può essere negato a nessuno, specialmente nel sedicente e arrogante Occidente civile ed industrializzato, laddove ci ammorbano quotidianamente con i sermoni pacifisti, smielatamente conditi da una cancerosa retorica dei diritti. Già, dov’è ora lo “stato di diritto” che invocavano i buontemponi vedendo bendato il sospetto omicida del Vice Brigadiere Cerciello Rega? Cosa sarebbe potuto succedere se gli amici di una vita avessero portato in spalla il feretro di Fabrizio?
Ma vogliamo essere stupidi, fessi all’inverosimile e credere che davvero possa esserci un pericolo pubblico. Uno Stato serio, una questura degna di tale nome, autorizza il funerale e dispiega i suoi uomini. Il funerale s’ha da fare, come e quando vuole la legge dell’ordine. Ma è una questione di volontà, fermezza e rispetto della dignità, in un mondo in cui, sbandierandola, ha finito per ridicolizzarla.
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