Oggi si torna in campo e forse è una fortuna, nonostante la moria di titolari di quest’ultima settimana e la ferita aperta di un derby perso e pure male, non tanto per il risultato, quanto per l’approccio all’evento. Ma è un capitolo da chiudere e speriamo tutti che in fondo, stavolta sì, la squadra abbia sentito che perdere non è mai indolore, anche dopo il 26 maggio. Anche se onestamente, la prova di domenica non è incoraggiante sotto le voci temperamento e personalità. Anzi, forse la Lazio sul campo è tornata di colpo indietro di tre anni, alle prove-derby più tenui e meno reattive. Quelle in cui la percezione che nulla potrà cambiare dopo un gol avversario prevale sulla speranza che è sempre l’ultima a morire. Per quel che mi riguarda, si era spenta ben prima del rigore-ciliegina e della ribattuta di De Rossi su Ederson.
Anche se oggi c’è il Catania e bisogna voltare pagina, qualche considerazione vale comunque la pena di farla perché alla fine la “rivincita” c’è stata, almeno nella loro testa. Basta sentire in giro e persuadersi una volta di più delle sette vite del dirimpettaio. Da tastiera, da bar, da ovunque. Basta prestare attenzione per distinguere chiaramente il trambusto della salita sul carro dei vincitori dei tifosi occasionali, “quelli che non sanno neanche per chi gioca Klose”, per intenderci e delimitare la categoria, ma che quando le cose vanno bene tornano ad essere“magicamente” tifosi giallorossi. E’ un argomento noto. Sana recriminazione sull’esito della partita e sano pensiero che forse al maggio della Coppa Italia vale sempre la pena dare un seguito (senza sminuire la Storia del calcio di questa città che quel giorno ha emesso la sua incancellabile sentenza, sia chiaro), insorgono inevitabili, ponderando il prima e il dopo.
Partiamo dal dopo, più istintivo. Nella lotta al razzismo da curva cade anche il Milan per i cori anti-Napoli ma le norme severe e cogenti che segnano il campionato sembrano ignorare le offese alla memoria e ai defunti. Sarebbe ora che qualcuno pensasse ai gentiluomini che peraltro hanno fatto il giro della rete intonando il loro canto becero, su Paparelli, sciamando dall’Olimpico. Tutto potrebbe finire con un’archiviazione, tipo Testaccio a luglio, con l’interruttore dello sdegno cittadino inesorabilmente posizionato sull’OFF. La stessa, muta modalità esibita dalle autorità, civili e sportive, nel goliardico sfottò contro Giorgio Chinaglia esibito qualche giorno fa a Parma. Questo perché, non nascondiamoci ancora una volta, nella Capitale il tifo ha preso inesorabilmente la via della prevaricazione. Prendiamo a prestito pensieri e parole dall’autore di una guida di Roma assolutamente insolita e avvincente, attualmente in libreria. L’autore dice che “Essere laziali in questa città vuol dire essere figli di un dio minore, sottoposti alla dittatura dei numeri. Il punto non è l’ attaccamento ai colori, il punto sono i numeri (…) Se si vince uno scudetto si vede. Roma diventa giallorossa nella sua quasi totalità e questo non è sintomo di superiorità assoluta (così pensano i giallorossi) ma solo numerica. E’ un contagio, non una conta. Chi non è nei numeri ci entra per virus”. L’ autore di “Perdersi a Roma”, Roberto Carvelli, confessa la sua lazialità pacata e le sue parole chiudono una perfetta analisi, distaccata e accompagnata dal sereno auspicio di una conciliazione cittadina che però, ahinoi (tutti), sembra lontana anni luce.
E la sostanza dell’analisi ha trovato puntuali conferme nelle ultime quarantott’ore. Giusto prologo l’applauso a Rudi Garcia in conferenza stampa. Giusto corollario scoprire sui social network giornalisti professionisti che scrivono di “laziali minoranza etnica”. O di “enclave”, sbagliando peraltro il termine che definisce uno stato chiuso e sovrano, compreso interamente all’ interno dei confini di un altro. I laziali stanno in tutta Roma e non in un quartiere, tanto per dire. E sono, e saranno sempre fieri del loro essere minoranza e della loro differenza. Ma forse non vale la pena. E’ come mettersi a spiegare la differenza tra i legionari e i gladiatori, nella pacchiana scimmiottatura calcistica dell’Impero che va in scena in questa città da più di due lustri.
Ecco, a volte evitare una sconfitta sul campo significa evitare il “contorno”, tutto quello a cui abbiamo assistito e che solo in minima parte abbiamo descritto. Ecco perché disturba la mancanza d’orgoglio di una squadra dimessa. Ecco perché disturba sempre perdere un derby, anche se svuotato dalla Storia.
Per chiudere, restituiamoci quello che è nostro. La Lazio, nonostante il sempre più ingombrante elemento di disturbo rappresentato dalla presenza di Lotito, è un amore più che una fede. Un amore che sa tanto di integralismo. E il calcio è la cosa più seria tra quelle meno serie. Lo diciamo e lo pensiamo dopo una sconfitta ma anche dopo un successo. “L’ajietto” di romanissima tradizione l’hanno scoperto altri qualche tempo fa. Ma qualche domanda resta sospesa, sperando in sollecite risposte delle Autorità a bocce ferme, proprio perché l’Autorità la rispettiamo sempre. Noi…
Visto che i soliti casini sul “lungotevere-terra di nessuno” alla fine ci sono stati, di giorno e nonostante le minacce del prefetto e la coreografia negata per non urtare la suscettibilità altri, quando e dove si giocherà il prossimo derby? E’ davvero filato tutto liscio o vogliamo dare finalmente un’occhiata ai filmati, con relativo ascolto del sonoro? Ed evocare “l’eterna sconfitta”dell’avversario con quella coreografia giallorossa, caro prefetto, non è forse offensivo verso i tifosi della parte opposta? Non suscita secondo lei nessun risentimento in chi si è visto negare la possibilità di schernire l’avversario sconfitto come succede da sempre nel derby? E non solo sugli spalti, ma anche in campo, visto che noi il pollice verso di qualcuno ad indicare la possibile retrocessione della Lazio a causa di un derby perso tre anni fa lo ricordiamo e non serve un memoria eccezionale per ricordalo. Per di più, parlare di eterna sconfitta” da parte di qualcuno arrivato secondo e con distacco abissale in termini di fondazione, è decisamente opinabile e fa sorridere, mentre il 26 maggio è un dato di fatto nella sua oggettività e fa sorridere solo noi. Un sorriso che non si certo è spento per una sconfitta in un uno dei tanti “memorial”della storia e che non si spegnerà mai.
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