Non ho mai amato le morali, gli indici puntati contro, l’indignazione a targhe alterne di tanti giornalisti pronti a condannare una tifoseria salvo poi difendere a spada tratta la squadra del cuore se i suoi “colleghi” tifosi cadono nello stesso errore commesso dagli altri. In questo paese tutti a parole pretendono il rispetto delle regole finché a sbagliare sono gli altri, ma quando si tratta di pagare in prima persona il conto, allora si cercano giustificazioni, si tenta di nascondere la polvere sotto il tappeto, si tenta di giustificare con una qualsivoglia provocazione la reazione scomposta e becera che ha portato alla sanzione. E questo vale per tutti, nessuno si deve sentire escluso o immune da colpe, perché la verità è che i laziali sono dipinti come i “nuovi mostri” del calcio italiano, ma il razzismo è dilagante in un paese da sempre diviso su tutto, in un’Italia che si professa moderna e nazione, ma che in realtà come mentalità sta ancora ai tempi delle faide tra contrade e degli odi tra comuni. L’odio non è solo verso il nero, il giallo, il rumeno o lo zingaro, l’odio è generale verso chi è diverso da noi o per chi la pensa in modo diverso. Fa notizia il veronese che invoca il Vesuvio per spazzare via Napoli e chi ci abita, fa meno notizia il veronese che odia i vicentini e i bresciani, che terroni non sono, che abitano sullo stesso parallelo, ma sono comunque considerati nemici da insultare come e più dei napoletani. E viceversa.
Non sto cercando di buttarla in caciara, di allargare il discorso per evitare di parlare di quello che è successo domenica all’Olimpico e che ha portato alla chiusura della Curva Nord per la partita di domenica prossima contro l’Udinese, perché della Lazio, dei suoi tifosi e degli errori commessi negli ultimi dodici mesi ne ho già parlato e ne parlerò anche oggi, ma se vogliamo affrontare seriamente il discorso “razzismo” in Italia e tentare di risolvere una volta per tutte il problema, bisogna partire dal presupposto che nessuno ha la coscienza a posto, che relegare in un angolo i tifosi della Lazio come se fossero gli unici razzisti in Italia in compagnia di quelli della Roma, della Juventus, dell’Inter e del Verona (le società colpite dal Giudice Sportivo negli ultimi dodici mesi), significa non aver capito nulla di quello che sta succedendo in un paese in cui un ministro da dell’orangotango ad un altro ministro solo perché è nera di pelle e fa parte di un altro schieramento politico, ma resta tranquillamente al suo posto. In barba alle regole, con la perfetta applicazione dei “due pesi e due misure” secondo cui se viene condannato un normale cittadino si aprono le porte del carcere, ma se ad essere condannato è un ex premier si parla di persecuzione e si è disposti anche a far cadere un governo pur di evitargli il carcere o l’interdizione dai pubblici uffici. In un paese del genere, come si fa a imporre il rispetto delle regole?
Gli ululati contro i giocatori di colore sono solo la punta dell’iceberg. Vanno sicuramente combattuti, eliminati, e se per debellare questa piaga il prezzo da pagare è passare per gli stadi vuoti o alcuni settori chiusi, lo pagheremo. Ma punire non significa educare. E se a sbagliare sono quelli che dovrebbero dare l’esempio, come si può pretendere poi che la gente capisca? Un esempio? La Roma è stata condannata a giocare per una partita con la Curva Sud vuota a causa degli ululati razzisti contro Balotelli in occasione di Milan-Roma. L’arbitro (quando si dice il caso) era Rocchi, lo stesso di Lazio-Juventus. Non ha avuto il coraggio di sospendere la partita nonostante il mancato rispetto da parte dei tifosi giallorossi dei ripetuti appelli da parte dello speaker dello stadio e la minaccia di sospensione della partita e di sanzioni, proprio come è successo domenica all’Olimpico. Morale, la Roma pagherà proprio come la Lazio, giocando la prima partita di campionato in casa con la Curva chiusa. I tifosi della Roma hanno sbagliato, quelli della Lazio anche e su questo non ci piove. Ma se il fratello del presidente del Milan (Paolo Berlusconi) parlando di Balotelli lo definisce “il negretto di famiglia”, se i comunicatori con la scarpetta al collo già prima della partita definiscono il giocatore del Milan come un “provocatore”solo perché in passato ha messo un dito davanti alla bocca per zittire chi lo insultava o ha fatto una linguaccia dopo un gol a chi continuava a subissarlo di “buuuu”, se il capitano di quella squadra prende Balotelli a calci e gli cammina sulla testa per “vendicare” l’affronto, come si può pensare che i tifosi si comportino “normalmente”? Se i primi che dovrebbero dare l’esempio sgarrano, perché alla fine della giostra in perfetto stile “due pesi e due misure” devono essere additati solo i tifosi? Questo non significa che se altri hanno sbagliato prima i tifosi sono legittimati a sbagliare, così come non deve passare il principio che se un politico ruba allora anche il cittadino si deve sentire legittimato a rubare, ma se si vuole affrontare seriamente l’argomento razzismo e debellare una volta per tutte questa piaga, così come la Curva deve restare vuota Calderoli deve essere cacciato per atto di razzismo nei confronti del ministro Kyenge. Altrimenti stiamo alla polvere messa sotto il tappeto per far vedere che la casa è pulita, siamo al “capro espiatorio” gettato in pasto all’opinione pubblica, al marchio d’infamia appiccicato addosso solo a uno o a poche tifoserie per far vedere che si combatte duramente, mentre in realtà in questo modo si tenta solo di coprire un fenomeno che ha proporzione ben più vaste e parte non dagli stadi ma dalla società civile. Un movimento calcistico che vieta ai tifosi di esporre negli stadi striscioni goliardici ma poi tenta di definire come “goliardici” o come un semplice “tentativo di innervosire l’avversario” i “buuu” razzisti, non ha credibilità. E chi tenta ancora oggi di sottolineare la differenza tra cori, ululati e fischi contro chi ha il torto di avere un’etnia o un colore di pelle diverso dal nostro, non ha capito nulla del problema. Vale per i tifosi, quanto per i comunicatori che si indignano a targhe alterne.
E veniamo in casa nostra. Da un anno a questa parte, gli episodi sono stati troppi per pensare al caso isolato o alla provocazione contro le istituzioni sportive. Il muro contro muro con Platinì, l’Uefa, la Federcalcio e ora anche la Fifa (Blatter ha annunciato nuove sanzioni nella riunione del board della Fifa in programma il 12 settembre), non porta da nessuna parte. Oramai il danno è fatto, oramai siamo stati bollati e ci è stato attaccato addosso il marchio d’infamia. E tutti devono sapere che cosa rischiamo. Lo scorso anno siamo stati costretti a giocare due partite con lo stadio deserto e per i prossimi due anni avremo sulla testa la spada di Damocle dell’esclusione per una o più stagioni da tutte le competizioni europee e al primo errore scatterà la mannaia, perché abbiamo un peso politico pari a zero e siamo un capro espiatorio perfetto. Specie per una Federcalcio che per anni è stata passiva verso questo problema e che ora che i buoi sono scappati dalla stalla sta reagendo perché richiamata all’ordine dell’Uefa e dalla Fifa.
Come se ne esce? A mio avviso le soluzioni sono due: o si capisce che la guerra è persa in partenza e ci si arrende senza cercare la scusa dei 100 imbecilli che non possono essere controllati, oppure si combatte rispondendo alle sanzioni con una vera provocazione. Si usano due pesi e due misure e si è convinti di essere stati puniti ingiustamente? Bene, allora se la Lega chiude un settore, i tifosi lascino deserto anche il resto dello stadio, svuotando di loro sponte il teatro. E’ un atto estremo e la cosa è difficile da realizzare, lo so bene, ma sarebbe la risposta migliore per porre seriamente il problema, per pretendere il rispetto delle regole a 360° e additando chi continua ad usare i due pesi e due misure.
Purtroppo, noi negli anni ci siamo fatti la nomea e sarà dura staccarsi di dosso quell’etichetta di tifoseria razzista che ci è stata appiccicata, ma dobbiamo serenamente ammettere che tutti noi (nessuno escluso) abbiamo fatto ben poco per evitare che si arrivasse a questo punto. La situazione doveva essere affrontata di petto e risolta molto tempo fa, ma abbiamo fatto gli struzzi, abbiamo continuato a parlare di goliardia e a nasconderci dietro la scusa della provocazione e senza accorgercene siamo arrivati sul ciglio del baratro. Oramai, per tutti o quasi siamo “i nuovi mostri” e solo noi possiamo fare qualcosa per evitare di precipitare, anche a costo di prendere di petto il vicino di posto “becero” o “razzista” che fischia o si lascia andare a ululati. Vale per chi sta in curva come per chi sta nei distinti, in Tevere o in Monte Mario, perché non è un problema di Curva Nord, è un problema sociale dilagante che coinvolge il ragazzino di 16 anni come l’uomo di 60 anni che odia chiunque sia diverso da lui. Perché siamo diventati un popolo di razzisti senza neanche rendercene conto. Ed è ora che i trogloditi ululanti da stadio si mettano l’animo in pace, che capiscano con le buone o con le cattive che fischiare o insultare un giocatore avversario per il colore della sua pelle è “razzismo”. E pure stupido se poi si esulta per le giocate di un giocatore con la pelle nera che indossa la maglia della tua squadra. L’ironia, la goliardia o l’arte di infastidire sono altro. E noi romani per primi, che da sempre facciamo dell’ironia e della goliardia il nostro cavallo di battaglia, dovremmo saperlo bene,
STEFANO GRECO
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