Quello che pubblichiamo integralmente è un articolo dal titolo Commando ultrà curva sud comparso sul sito ilRomanista.it in cui si definisce l’omicidio di Paparelli un errore ma subito dopo si parla anche del dramma del suo assassino (che nel frattempo è morto) e si aggiunge: onore a chi ci ha lasciato con la Roma nel cuore. Peggio di così c’era stata solamente la giustificazione del kamikaze che si era fatto saltare a Nassiriya.
C’è stato un tempo in cui il popolo è stato al potere, in cui ti sentivi parte di una comunità mai vista prima, ma solo la domenica. Ci si vedeva allo stadio, sui pullman e sui treni per la trasferta: non occorreva nemmeno fare amicizia perché il tempo sopra al muretto, e poi sotto, ma ancora senza vetrate, non passava. La comunità sopravviveva alla quotidianità. Avevi cambiato lavoro, donna, uomo, destino, oppure tutto era rimasto lo stesso, fatto sta che la domenica stavi lì Commando Ultrà Curva Sud. Sempre uguale e sempre diverso: te stesso. Oggi son 37 anni di un’eternità alla rovescia, visto che sembra non esserci più, perché quello striscione di quarantadue metri non c’è: la Curva Sud, una mamma a prescindere, a un certo punto ha voluto altro. E’ la storia a tenerti in vita: quell’epoca di sogno che “mi ritorna in mente” come un rullo di tamburi. Ancora. Tu-tu-tutum-tum. I tamburi, anacronistici come il calcio delle radioline e delle trombette a gas. Oh my darling Clementine! Eccolo qua. Forza Roma, forza Roma, dalla curva s’alzerà, noi t’amiamo e t’adoriamo siamo del Commando Ultrà.
C’è stato un tempo in cui il popolo è stato al potere, in cui ti sentivi parte di una comunità mai vista. Era il tempo in cui c’era il sole. Sempre. Anche la notte di coppa, acceso dalle torce e dentro ai fumoni, bandiere a vento la Curva Sud è pe’ te. C’erano ragazzi e padri di famiglia, donne coi colori di Roma dai sapori della mattina, ci si divideva il piatto preparato almeno 8 ore prima, in 80.000. Qualsiasi forma di governo applicata non è mai arrivata a tanto nella storia. Nessuna teoria di Locke, Marx o Keynes che sia, di destra e di sinistra che sia, ha saputo osare tanto. Perché quando il popolo era al potere faceva soprattutto una cosa: il canto. Cantava.
Una volta l’ha fatto quando la Roma perdeva e chiudeva per sempre (è mai tornata quella squadra lì? Sono mai tornate le merendine di quand’eri bambino?), pure quel giorno che pioveva c’era il sole: il 20 marzo 1985 “Che sarà sarà” mezz’ora che è stata mezz’ora contata cantata di fila: Che sarà sarà ovunque ti seguirem, ovunque ti sosterrem che sarà sarà. Sciarpe tese, srotolate come togliersi una benda da una ferita mortale: per morire meglio, anzi, meglio, per non morire. Pioveva quel pomeriggio e si piangeva, chiedetelo a uno qualsiasi degli ottantamila se è vero. Facevi fatica a non farlo in quella partita, perché non si fa, poi se sei un ultrà… Ma che sarà sarà ovunque ti seguirem, e allora è libertà… Pure Nela quando segnò quel gol inutile pianse, e Nela è stato il giocatore con più palle di tutti. Nela era Commando Ultrà pieno quando si baciò la maglia a Torino dopo essere stato cacciato dalla Juve e dall’arbitro.
Che sarà sarà era un canto che accompagnava un addio al calcio: l’anno dopo sarebbe arrivato Berlusconi, se ne sarebbe andato Falcao, se n’era già andato Dibba, prima di mirare più in alto: dritto al cielo (sfondalo Ago, sfondalo). Era iniziata chissà quando, ma è il 9 gennaio 1977 che sei apparso Commando. Tre a zero alla Sampdoria di Lippi, Dibba faceva doppietta (come quel nome rafforzato nella sua rincorsa secca) pure sul campo. C’erano 8 tamburi e 2 bandieroni quel giorno, c’erano i ragazzi degli Anni Settanta figli dei Sessanta in cui iniziava la contestazione, contro padri e padroni, sistemi e convenzioni.
Con loro c’era il senso di aggregazione-socializzazione-ribellione; valori tirati fuori in strada, la voglia di cambiare e, soprattutto, di stupire. Soprattutto di stupire chi non capisce (e nemmeno all’epoca capiva) come un ragazzo di destra e un altro di sinistra in quegli anni lì, separati da tanto per strada (ma non dalla voglia di rispettare un ideale), si ritrovavano dietro al megafono a far cantare e a cantare, dietro a quello striscione: Commando Ultrà Curva Sud. Sui muri c’era UR, invece. UR che alle elementari le maestre più avvedute (tanto era il grado di penetrazione, tanto si respirava l’essere Roma a Roma) usavano per insegnarti a scrivere la prima vocale unita a una consonante. Per la matematica bastava aggiungere 77. Quattro lettere un amore un lungo brivido in fondo al cuore. La Roma e il Commando Ultrà sono stati quella comunità strana in cui il segno di riconoscimento era uno sguardo, un mezzo discorso accennato e che riguardava il pallone, la discussione al negozio, la passeggiata fatta apposta la mattina da quelle parti per sfottere il laziale oppure per fargli vedere che tanto a noi non ci fanno male. La nostra fede non conosce sconfitta. La Lazio, i derby. Il Commando Ultrà ha vissuto soprattutto in questo. Anche la morte, il rispetto: 28 ottobre 1979, maledetto. Con la Curva che cantava ancora e non sapeva cos’era successo: Vincenzo Paparelli, il dramma, l’errore che non doveva mai verificarsi. Il dolore. Un altro tipo di rabbia. Un’altra volta il mondo che cambia, ma stavolta non doveva farlo. TZigano, pure il suo dramma. Non c’è più nemmeno lui. Nemmeno Geppo, nemmeno Roberto. Onore a chi ci ha lasciato con la Roma nel cuore. Via quello striscione, via i tamburi: il casino quel giorno al centro, la paura, le domande che contano: “e adesso?” E adesso come sempre, perché il Commando Ultrà riproduce er popolo, no quello der cortello, ma quello che fatica fra mazzo e l’allegria.
Le cariche della polizia, gli scontri a Bergamo e proprio in quell’anno a Firenze, a Milano l’assedio degli interisti, a Torino contro tutti perché le trasferte ovunque e comunque contro chiunque. Per la Roma. Trasferte oceaniche, processioni infinite, orde di letterati direbbe Robin Williams dell’Attimo fuggente in viaggio, a Torino in 22.000 fin lassù perché Testaccio ti guarda. Anche di più a Monaco di Baviera, per l’andata di quel ritorno senza ritorno. Non l’aveva mai fatto nessuno prima tutto quello che ha fatto il Commando dopo. Il 16 marzo 1986 la coreografia dei rotoli contro la Juve, la bomboniera confezionata al momento dello sventolio di una bandiera per Eriksson: 3-0, Roberto-gol si spoglia e non l’aveva fatto mai nessuno prima. Ecco, la Roma e i suoi tifosi erano la stessa cosa, in campo e fuori. I migliori del mondo. C’è stato un tempo in cui il popolo è stato al potere ed è stato capace pure di tenere a bada la guerra, magari dentro un coro paradossale che inneggiava a quella, a quanti “devi morire” per sentire più sentimenti proprio in quel momento, per sentirsi vivi, come i teschi, le croci alzate nel mare dentro al Foro Italico in inverno (il derby di Dustin Hoffman Antonelli). Le bandiere, c’erano le bandiere. E i bandieroni sventolati sotto la Sud prima dell’entrata in campo della Roma. In piedi. Già c’erano tutti in piedi. Con le bandiere. Giallorosse, con tutti i ricami che vuoi (se li vuoi) ma giallorosse (c’era più giallo nello scudetto dell’83 rispetto al rosso scuro del 2001). C’era già il tifo all’inglese portato qui per una finale di Coppa dei Campioni vinta dal Liverpool quando noi tifavamo Liverpool in finale di Coppa Campioni (mica la Champions League). You’ll never walk alone, eccolo: che sarà sarà. Quando al ciel si alzeran le bandiere, e i tamburi a suonar torneran… I fumogeni, i capelli lunghi che da lunghissimi vanno a zero, ma tanto passano i tempi e le mode il Commando resta.
Resta, anche se quando arriva Lionello dacci le quote si spezza, vecchio Cucs e Cucs con la R registrata, dal Gam all’Opposta Fazione. sono passati dieci anni dalla prima volta, sembrano secoli. Poi una partita col Genoa in Coppa Italia diventa quella assurda dei lunghi coltelli. Fermati Roma, fermati. Non è questo l’ultimo fotogramma. C’è stato un tempo in cui il popolo è stato al potere perché il cielo era senza coperture. Alzavi gli occhi gonfi di tutto quell’arancio e guardavi la Madonnina d’oro sopra Monte Mario. Stavi lì almeno da 6 ore. Il pallone in campo faceva tumf e lo sentivi perché andare all’Olimpico era stato scoprire (dopo essere nato all’ultimo degli scalini prima del boccaporto e quell’invasione strafottente e dolce di verde negli occhi) che la la radio-tele-cronaca non c’era, che i giocatori erano giocatori in carne e ossa, che esistevano veramente e non erano un racconto settimanale alla radio, o in quelle poche immagini televisive (massimo 45′) che potevi guardare (ma a colori solo con Roma-Colonia dell’Immacolata Concezione): Rocca e Bruno Conti in ginocchio sotto mamma Sud, là sotto. Era la comunità che si ritrovava di volta in volta, che aspirava alle stesse cose, che realizzava se stessa soltanto nella contemporanea realizzazione degli altri.
Quando l’abbraccio era abbraccio, le partite erano vere, le immagini arrivavano veramente dalla Luna, e per questo le aspettavi a occhi chiusi: non c’era altro di più bello da vedere. L’odore delle sigarette allo stadio, che non erano sigarette eppure sapevano di Merit; ogni tanto il mal di tempie, la sete, ma si deve cantare (se non lo fai non puoi starci, non devi starci, ma sei il primo a volerlo fare), e poi in tivvù se fai in tempo dall’Olimpico, di corsa per arrivare al 90′, prima di Oddo a Domenica Sprint, la Diesse che era notte inoltrata e poi stop. Stop. Sopra la testa avevi il cielo, non Sky, niente coperture. Come indiani eroi nelle praterie, Ultrà Roma negli stadi. Il Commando è una di quelle cose che sembrano esserci da sempre e che tu hai l’impressione che non possono finire mai. Tutti sono stati del Commando anche se il Commando è stato per pochi. Perché c’è stato un tempo in cui il popolo è stato al potere e con quel potere ha detto ti amo.
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