Giuliano Terraneo, nato a Briosco (in provincia di Monza) il 16 ottobre del 1953, è il classico esempio di giocatore-meteora che però ha lasciato un segno profondo nell’unico anno in cui ha indossato la maglia della Lazio. Così come ha lasciato il segno quell’anno in cui ha indossato i panni del Direttore Sportivo, in coppia con quell’altro personaggio straordinario che risponde al nome di Julio Velasco.
L’arrivo di Terraneo alla Lazio nell’estate del 1986 lascia un po’ tutti gli addetti ai lavori piacevolmente perplessi. In molti si chiedono: perché un portiere con alle spalle nove campionati consecutivi da titolare in serie A con il Torino e il Milan ha deciso all’improvviso di scendere in serie B per difendere la porta di una squadra blasonata ma che ha da poco evitato il fallimento e che in campionato si è salvata solo all’ultima giornata dalla retrocessione in C? Dubbi più che legittimi, ma basta parlare pochi minuti con Giuliano Terraneo per capire che quella scelta ha una logica, almeno per un atleta e soprattutto un uomo che nella propria scala di valori mette molte cose prima dei soldi e della gloria personale. Giuliano Terraneo è un uomo di cultura, uno di quei personaggi che fanno la gioia di ogni giornalista. Non per i titoli che ti regalano con battute al veleno o creando un caso o una polemica ogni volta che parlano, ma perché con quelli come Terraneo l’intervista scorre sempre via veloce, perché non è mai banale. Come non lo è mai stata con Felice Pulici, oppure con Luca Marchegiani o con Angelo Peruzzi. Forse è solo un caso, ma sono tutti portieri. Con Giuliano Terraneo le interviste partono dal calcio e spesso ben presto sconfinano nella poesia, nella politica, in discussioni sulle cose di tutti i giorni, anche lontane mille miglia dallo sport in generale e dal calcio in particolare. Lui parla con la bocca, ma soprattutto con le mani. Sono mani grosse come pagnotte, più da manovale che da portiere. Le agita sempre, gesticolando in continuazione per spiegare, per dirigere l’intervista proprio come un grande direttore dirige la sua orchestra.
Con quei baffi neri e il volto a prima vista duro, Giuliano Terraneo in un primo momento ti incute timore e ti mette un po’ di soggezione, ma quando inizia a parlare e lo sguardo si addolcisce con quel suo classico sorriso, ogni timore reverenziale scompare. Questo vale per noi giornalisti alle prime armi, ma anche per i tanti ragazzi di quella Lazio del -9 che si affacciano sulla ribalta del grande calcio. A Gubbio, nei primi giorni di ritiro, Gregucci e gli altri gli si avvicinano quasi con timore, lui allora sorride e inizia a parlare, a dare consigli su cosa si deve o non si deve fare per conquistare un posto al sole nel mondo del calcio. Parla tanto, anche troppo. Nel giro di poche settimane con la sua loquacità mette tutti ko. Ricordo un suo compagno di squadra che finito il ritiro mi dice: “E’ un vero uomo-spogliatoio, un ragazzo in gamba, sempre disponibile e di una cultura sconfinata, ma pretende di avere sempre ragione. E se provi a contrastarlo ti stronca parlando per ore, finché non ti arrendi e gli dici che ha ragione. Non perché ti convince di avere ragione, ma perché pur di farlo stare zitto alla fine gli dai ragione”.
Giuliano Terraneo ama scrivere e questa sua passione all’inizio gli crea qualche problema. Lo chiamano il “portiere poeta”. Ma più che quello che scrive, a creargli problemi è quello che dice. Figlio del ’68, ma anche delle battaglie sociali e degli Anni di Piombo, in un’intervista post-elezioni non ha difficoltà a confessare di aver votato per Marco Pannella e per il Partito Radicale. E quella confessione, come ricorda in un’intervista del 1986, gli costa abbastanza cara. “Quell’atto di verità, spontaneo, mi creò parecchi problemi, ma servì a rendermi più forte, a seguire coerentemente la strada che avevo deciso di imboccare. Come per la scrittura, anche per quel che riguarda la politica, il tempo ha cambiato tante cose, ha smussato tanti angoli. Oggi non posso sicuramente definirmi radicale, perché le mie idee sono molto diverse da quelle di Pannella e degli altri radicali”.
A Gubbio, nei giorni dell’incertezza, con la Lazio sospesa tra la serie C e una pesante penalizzazione, lui è uno dei primi a decidere di restare. Ha sposato la causa-Lazio, ha dato la sua parola a Calleri e Regalia e non torna indietro, comunque vadano le cose. E alla fine tutti decidono di restare, seguendo lui ma anche Giuliano Fiorini e soprattutto Eugenio Fascetti. Oltre ad essere fondamentale nello spogliatoio, Giuliano Terraneo diventa fin dall’inizio importante sul rettangolo di gioco. E’ chiamato a cancellare l’immagine lasciata da Astutillo Malgioglio (altro portiere impegnato nel sociale), ma anche a raccogliere quella pesante eredità di Felice Pulici che ha schiacciato tutti i suoi predecessori: da Garella (che lasciata la Lazio vince uno scudetto a Verona e uno a Napoli) a Moscatelli, da Marigo a Nardin, da Cacciatori a Orsi. Se la Lazio chiude la stagione con la seconda miglior difesa del campionato, il merito è in gran parte proprio di Giuliano Terraneo: per le sue parate, ma soprattutto per come riesce a dirigere la difesa, urlando e agitando le mani, trasmettendo serenità ai compagni anche nei momenti più difficili, come in quell’incandescente finale della sfida con il Campobasso a Napoli, con tutta la Lazio, stremata, chiusa dentro l’area per difendere quel gol realizzato da Fabio Poli che significa la salvezza e la fine di un incubo iniziato il 5 agosto a Gubbio. Quel 5 luglio del 1987, segna anche la fine del rapporto tra il Giuliano Terraneo giocatore e la Lazio. Uscito tra i primi dal campo, negli spogliatoi riceve l’abbraccio di Giuliano Fiorini e di Mimmo Caso, gli altri “senatori” della squadra. Con Caso, il rapporto è cerebrale, con Fiorini il legame nasce spontaneo, a dimostrazione che anche gli opposti a volte si attraggono, non solo in fisica. E’ indimenticabile, per me, la sua uscita dal campo con Giuliano Fiorini in lacrime il giorno di Lazio-Vicenza, circondati da migliaia di tifosi che hanno invaso il campo. Ma l’immagine più bella che conservo, è quella che ci hanno regalato Michele Plastino e Valentino Tocco nel tunnel che conduce agli spogliatoi a Napoli, con quell’abbraccio, con quel “Giulià, Giulià” rotto solo dal rumore delle mani sulle schiene nude di giocatori stremati sia dal punto di vista fisico che mentale. Dopo quell’impresa, come Fiorini anche Giuliano Terraneo fa la valigia e va via. Ma non va in pensione. Accetta una nuova sfida, quella di portare il Lecce in serie A. E alla fine vince pure quella.
Appesi gli scarpini al chiodo, decide di passare dietro una scrivania. Arriva nella Lazio di Sergio Cragnotti come dirigente e nella stagione 1998-1999 è lui, come Direttore Sportivo, ad affiancare il Direttore Generale Julio Velasco nella costruzione della squadra che deve fare il definitivo salto di qualità. Quella Lazio vince subito la Supercoppa Italiana, vince la Coppa delle Coppe e nonostante gli infortuni che tolgono di mezzo per quasi mezza stagione Bobo Vieri e soprattutto Alessandro Nesta, arriva ad un passo dal conquistare lo scudetto. Il tricolore arriva l’anno dopo, ma lo vince la Lazio, non Terraneo, che nell’estate del 1999 vola insieme a Bobo Vieri alla corte di Moratti, per andare a fare il braccio destro di Lele Oriali. Resta all’Inter come Direttore Sportivo per quattro stagioni, vede sfumare il suo sogno tricolore il 5 maggio del 2002 proprio all’Olimpico contro la sua Lazio. Nel 2004, con la promozione di Marco Branca, esce di scena proprio alla vigilia dell’inizio del grande ciclo dell’Inter. Come alla Lazio. Quasi una maledizione.
STEFANO GRECO
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