LENZINIIl suo sorriso da “papà buono”, i suoi pronostici, le sue epiche partite a carte con Tommaso Maestrelli in ritiro, il suo rapporto di amore e odio con il figlio putativo Giorgio Chinaglia, i suoi giri di campo propiziatori prima di una grande partita, quasi avvolto da migliaia di bandiere biancocelesti e le sue frasi leggendarie durante le interviste. Tutto questo è Umberto Lenzini, l’uomo che portando per la prima volta la Lazio alla conquista dello scudetto si è conquistato di diritto un posto in prima fila nella storia ultracentenaria di questa società.
Figlio di genitori italiani, emigrati dalle montagne dell’Abetone a quelle americane di Colorado Springs, Umberto Lenzini è nato il 20 luglio del 1912 a Walsenburg. Torna di nuovo in Italia con la sua famiglia nel 1927 per completare gli studi di ragioneria presso l’istituto Duca degli Abruzzi, nei pressi di piazza Indipendenza, a due passi dall’attuale sede de “Il Corriere dello Sport”. Ragazzo dal fisico atletico, Umberto Lenzini gioca a calcio, ma ottiene nell’atletica leggera i suoi risultati migliori, arrivando a correre i 100 metri in poco più di 11 secondi. I genitori, con i soldi ricavati dalla vendita del grande emporio che hanno messo su a Walsenburg, acquistano gli enormi appezzamenti di terreno che sorgono alle spalle di piazzale degli Eroi, sotto il monte Aurelio e a Valle dell’Inferno, all’epoca aperta campagna e sede solo di alcune vecchie fornaci.  La costruzione di un’arteria importante come via Baldo degli Ubaldi e la successiva urbanizzazione della zona, trasformano i Lenzini in una famiglia di costruttori, con una scalata economica da “miracolo italiano” degli anni Sessanta. Il 29 ottobre del 1964, il “sor Umberto” entra nel consiglio della Lazio, presieduto all’epoca da Miceli. Diventa vice-presidente e dopo la reggenza da parte del generale Vaccaro, Lenzini affianca insieme ad Andrea Ercoli il giovanissimo Commissario Straordinario Gian Chiarion Casoni e il 18 novembre del 1965 assume la presidenza della Lazio.
Arrivato alla guida della società in un momento di gravissima crisi economica, figlia degli sperperi del passato, Lenzini chiede ai tifosi biancocelesti “pazienza e buon senso”. Il suo arrivo, segna una svolta nella storia del club, che si trasforma in società per azioni. Lui, il “sor Umberto”, ne sottoscrive per 5 milioni di lire. Inizia così l’avventura di uno degli ultimi presidenti romantici del calcio italiano, l’ultimo nella storia di una Lazio che, con l’avvento di Calleri prima e Cragnotti poi si trasformerà in una vera e propria industria, aprendo addirittura la strada alla quotazione in Borsa della società.
All’apparenza burbero, in realtà Umberto Lenzini è una sorta di “papà buono” che ha quasi la necessità di sentirsi circondato dai figli, da tanti consiglieri e da una moltitudine di amici. Un comportamento che lo fa paragonare dai giornalisti dell’epoca al “papà Goriot” descritto da Balzac. Nonostante il clima familiare, l’inizio dell’avventura lenziniana non è dei più facili: nel 1967 la Lazio retrocede in serie B, per risalire due anni dopo e precipitare nuovamente all’Inferno dopo altre due stagioni. Un sali e scendi che porta i tifosi a contestarlo, ma che in realtà è fondamentale per la costruzione delle fondamenta della squadra delle meraviglie. Tra alti e bassi, Lenzini ringiovanisce la rosa, effettuando un epocale cambio generazionale. E’ lui che firma l’assegno per l’acquisto di Wilson e Chinaglia dall’Internapoli; è lui che nel 1971 decide di chiamare in società Antonio Sbardella per mettere l’esperienza dell’ex arbitro al servizio della Lazio e del neo allenatore  Tommaso Maestrelli. Nasce un rapporto a tre all’apparenza molto promettente, che diventa ben presto però un rapporto a due, perché dopo l’ennesima litigata tra “papà Goriot” e il suo dirigente, Sbardella decide di lasciare la società dopo la cessione di Massa all’Inter.
Le partite a scopa con Maestrelli diventano leggendarie, con il perdente di turno costretto a firmare la banconota da girare all’avversario come ammissione della sconfitta. Un’umiliazione che va ben oltre il valore della banconota persa. Se con Sbardella il rapporto è fin dall’inizio tormentato, quello con Chinaglia è da subito caratterizzato da alti e bassi. Giorgione chiede di essere ceduto dopo la retrocessione in B nel 1971 e il conseguente licenziamento di Juan Carlos Lorenzo, ma Lenzini si oppone. In seguito, con il valore di Chinaglia che cresce in modo esponenziale in rapporto ai gol segnati e alla convocazione in Nazionale, Lenzini inizia ad accarezzare l’idea di monetizzare l’investimento fatto anni prima, ma viene stoppato dall’intero ambiente. Il “giù le mani da Chinaglia”,diventa il vero grido di battaglia dei tifosi e dei giornalisti di fede biancoceleste. Lenzini arriva a rifiutare un’offerta di 500 milioni di lire per il cartellino del suo centravanti, “Long John” resta ed è lui, insieme a Maestrelli, il grande protagonista della conquista del primo scudetto laziale. Lenzini, con quei memorabili giri di campo tra cori e bandiere al vento, vive il suo momento di trionfo, ma lo scudetto vinto lo convince della bontà della sua gestione-familiare della Lazio. Un modo di fare calcio non al passo con i tempi e con i cambiamenti in atto, che ben presto porta nuovamente la Lazio dal Paradiso al Purgatorio e poi all’Inferno.
Dopo l’acquisto di giocatori sconosciuti diventati campioni affermati, come Chinaglia, Wilson, Martini, Pulici e Re Cecconi, Umberto Lenzini si convince di essere diventato un grande esperto. Per sostituire Chinaglia, volato negli Stati Uniti, acquista Ferrari che si rivela un bluff. L’anno successivo, mentre il Vicenza preleva dal Como Paolo Rossi, il “sor Umberto” compra l’altro Rossi del Como e intervistato dalla RAI gonfia il petto dice con aria di sfida: “Ho acquistato io il vero Rossi, non Paolo, Renzo….”. L’anno successivo, paolo Rossi vince la classifica dei cannonieri in seri B e poi in Serie A, diventando uno dei punti fermi della Nazionale di Bearzot. Il Rossi comprato da Lenzini, è invece poco più di una meteora passata quasi senza lasciar traccia nella storia della Lazio. Finita l’epoca d’oro figlia del boom immobiliare, Lenzini fatica a restare al passo con i tempi dal punto di vista economico e con l’uscita di scena prima e la morte poi di Tommaso Maestrelli, perde anche il controllo della squadra. Questo vuoto di potere, consente a personaggi loschi di trovare terreno fertile all’interno di una Lazio che quasi senza accorgersene si ritrova coinvolta nello scandalo-scommesse che sconvolge il calcio italiano. Con la retrocessione a tavolino dell’estate del 1980, i mugugni dei tifosi si trasformano in una ferocissima contestazione e il “sor Umberto” è costretto a passare la mano al fratello Aldo. L’era-Lenzini, si chiude definitivamente l’anno successivo, quando Aldo Lenzini lascia la società nelle mani di Gian Chiarion Casoni.
Umberto Lenzini cade immediatamente nell’anonimato, i tifosi che lo hanno applaudito durante quei festosi giri di campo negli anni d’oro, lo additano come il maggiore responsabile del tracollo della Lazio. E lui resta dietro le quinte, lascia il palcoscenico in silenzio, senza disturbare. Muore il 22 febbraio del 1987, in una domenica senza calcio, quasi per non dare fastidio. Due giorni dopo, al funerale celebrato nella Basilica di San Lorenzo, partecipano migliaia di tifosi della Lazio, anche se non c’è la folla oceanica che ha fatto da cornice all’ultimo saluto dato a Tommaso Maestrelli e a Luciano Re Cecconi. Ma questo non toglie nulla a Umberto Lenzini e al ruolo fondamentale che ha recitato questo uomo d’altri tempi nella storia della Lazio, un presidente che è riuscito dove hanno fallito in tanti prima di lui, investendo anche capitali enormi, da Ballerini a Zenobi, da Gualdi a Siliato: portare la Lazio alla conquista del primo scudetto.

STEFANO GRECO



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