innanzitutto mi scuso se in testa a questa lettera non aggiunto il termine “caro” o “gentile”, come si fa solitamente per educazione quando si scrive una missiva, ma proprio non mi riesce di scriverlo. Potrei usare il termine “illustrissimo”, ma suonerebbe più canzonatorio che falso e, mai come questa volta, nelle parole che ho deciso di usare in questa lettera non c’è né ironia né la voglia di canzonare lei o chi le sta vicino. Ma solo di mettere nero su bianco un pensiero personale che, leggendo e ascoltando da anni la nostra e la sua gente, è condiviso da molti. Non dico dalla stragrande maggioranza, ma di sicuro non da una “sparuta minoranza”.
Vado subito al punto. Il problema di questa Lazio non sono i risultati che non arrivano, se non in minima parte e come succede in tutte le piazze del mondo quando le cose non vanno. Il problema della Lazio di oggi è la mancanza assoluta di prospettive, a breve e a lungo termine. L’assenza assoluta di speranza che qualcosa possa cambiare e che ha portato nell’ambiente un senso di distacco mai visto in passato da chi da oltre 45 anni segue la Lazio. Abbiamo passato periodi bui, anni terribili in cui giocatori del livello di quelli che indossano oggi la maglia della Lazio erano un sogno, quasi un miraggio per chi attraversa il deserto ed è stremato perché ha esaurito le scorte di acqua. Con tutto il rispetto per i giocatori che sto per nominare (perché chi indossa la maglia della Lazio merita sempre e comunque rispetto), noi che abbiamo visto quella casacca addosso a Cupini e Piraccini, non storciamo il naso perché Biglia e Felipe Anderson non stanno rendendo come promesso e perché non sono all’altezza di Simeone e Veron. Noi che abbiamo visto un Della Martira a fine carriera arrancare per marcare Pruzzo all’apice del suo splendore, non abbiamo certo la puzza sotto il naso vedendo che Novaretti non ha un decimo della classe di Nesta. Noi che abbiamo visto Capocchiano centravanti, non contestiamo Perea e Floccari perché non sono all’altezza di Vieri e Crespo. E potrei andare avanti all’infinito. Perché il problema non è fare paragoni con il meglio o con il peggio che abbiamo visto, ma sapere che il nostro futuro sarà identico a questo presente e al recente passato. E se la gente perde la speranza che le cose possano cambiare, subentra la rassegnazione che porta all’indifferenza e all’apatia. Ecco, il problema della Lazio di oggi è proprio l’APATIA.
Perché ha contagiato tutti, dai tifosi ai giocatori, passando per un allenatore che oramai recita come lei lo stesso copione da più di un anno e mezzo, promettendo impegno e riscatto per la prossima partita, all’infinito. Parole, concetti banali smentiti quasi sempre dalla prova sul campo e che per questo oramai non fanno più presa su nessuno, anzi, vengono accolti quasi come una sorta di presa per i fondelli. Proprio come sta accadendo con lei, con i suoi proclami. “I ragazzi sembrano non avere motivazioni, sembrano non vedere al di là della singola prestazione domenica dopo domenica”. Ha ragione in questo, ma avrebbe dovuto togliere il “sembra” e scrivere “hanno”, perché come dicevo prima è questa la realtà ed è visibile a tutti, come i nomi dei responsabili di questa situazione.
La sua iniziativa di scrivere alla gente laziale è lodevole, ma i grandi capi quando le cose vanno male, si caricano sulle spalle tutto il peso della sconfitta, assumendosi anche le colpe di altri. Lei, invece, nella sua lettera ha giocato per l’ennesima volta a scaricabarile, accusando neanche troppo velatamente l’allenatore e la squadra per questo avvio fallimentare, sicuramente al di sotto delle aspettative e delle promesse. Aspettative create da lei e da chi lavora con lei, da chi ha parlato di Lazio da Champions League, da chi ha descritto questa squadra come inferiore solo alla Juventus, nascondendo magagne palesi e l’ennesima occasione gettata al vento. Nella sua lettera non c’è una sola ammissione di errore e tantomeno una parola di scuse per aver tradito le attese. Ma nessuno si è stupito di questo, perché lei in nove anni e mezzo non ha mai ammesso una sola volta di aver sbagliato qualcosa. Anzi, ha ribadito di aver speso tantissimo.
“Questo momento non è così brillante, lascia interdetti e pieni di interrogativi anche alla luce dei notevoli investimenti che la Società ha effettuato, per rafforzare un organico già di per sé altamente competitivo”.
Ecco, Una persona seria, si farebbe una domanda sul “perché” di tutto questo. Si chiederebbe dove può aver sbagliato e cosa, mentre lei scarica le colpe sui “ragazzi che si sono smarriti”. Lei si lamenta per qualche critica o per qualche coro, Sergio Cragnotti ha subito contestazioni feroci con tanto di assalto alla sua residenza di Via dei Cappuccini solo per aver ceduto Nedved, quindi non si lamenti per le contestazioni legate alla campagna acquisti, perché le subiscono tutti i presidenti, anche i più amati.
Lei chiede alla gente di stare vicina alla squadra e all’allenatore, ma chi in queste settimane ha messo piede all’Olimpico non ha sentito nessun coro contro i giocatori o Petkovic, al massimo qualche fischio (come all’intervallo della partita con il Cagliari) all’indirizzo di una squadra che non ha né gioco né un’identità. Ma l’affetto e l’incoraggiamento non sono mai mancati, neanche nella partita persa contro il Genoa, al termine della quale la gente era talmente rassegnata a questo presente da uscire dallo stadio in silenzia, senza la rabbia tipica del tifoso deluso e tradito. E questo, glielo assicuro, è molto più preoccupante.
Il problema, quindi, non sono né i giocatori né l’allenatore, e tantomeno la gente e i giornalisti che lei definisce “sirene di omerica memoria”, perché secondo lei sobillano la gente cavalcando l’onda del pessimismo o del disfattismo. No, presidente, il vero e unico problema è LEI, la sua presenza, l’idea che LEI possa veramente restare “sine die” alla guida di questa società, magari tenendo fino in fondo alla minaccia di lasciarla un giorno in eredità a suo figlio. Questo è il vero problema…
Lo è perché LEI non cambierà mai, perché questa sua lettera è una finta mano tesa alla gente in un momento in cui LEI è in difficoltà, perché la Lazio va male e perché la situazione delle sue aziende è tutt’altro che florida, nonostante i milioni di euro che alcune di esse incassano proprio dalla Lazio. Lo è perché LEI ha esaurito il suo corso ma non si vuole rassegnare all’idea che è andato anche ben oltre le sue possibilità e che dovrebbe imitare Calleri, che dopo aver salvato la Lazio dal baratro ha passato la mano, monetizzando il suo investimento e cedendo la società a qualcuno in grado di farle fare quel salto di qualità che lui non poteva garantire. LEI questo non lo accetta, perché per LEI è più importante Lotito della Lazio, così come sono più importanti i suoi interessi di quelli della Lega Calcio che rappresenta, come è stato più importante il suo interesse di farsi scrivere una legge ad hoc per costruire su terreni su cui al momento è impossibile costruire che far approvare una “Legge sugli stadi” attesa da tutto lo sport italiano. Questione di EGO, ed il suo, non lo può negare, è smisurato, al punto da riportare alla mente grandi del passato che per appagare il loro ego si sono rovinati. Ma LEI non è Napoleone o Carlo Magno, non è neanche Hitler o Mussolini, anche se il suo discorso post successo in Coppa Italia a piazza San Silvestro ha ricordato molto nei modi e nei toni quelli che quasi 80 anni fa qualcuno faceva da un balcone a piazza Venezia, poco distante dal pulpito di quella sera.
Se mai c’è stato un rapporto tra LEI e il popolo laziale, presidente, quel filo si è spezzato, si è frantumato in così tanti pezzi che sarà impossibile ricostruirlo e riallacciare un rapporto. E la realtà è sotto gli occhi di tutti: uno stadio sempre più vuoto nonostante i disperati tentativi di riempirlo con abbonamenti quasi regalati e sconti sui biglietti, cori incessanti in cui la gente, la sua gente, arriva ad augurarle addirittura la morte. E ci si chiede come si faccia a restare impassibili, a non accettare il consiglio di chi le sta vicino (la famiglia di sua moglie in testa) di passare la mano, di capire che nelle cose terrene tutto ha un inizio e tutto ha una fine, come LEI dovrebbe sapere bene visto che non perde occasione per ricordarci quanto è cattolico. Nessuno le chiede di uscire di scena regalando la Lazio come fece Gian Chiarion Casoni quando consegnò la società a Chinaglia perché questo voleva la piazza. Nessuno pretende che LEI se ne vada dalla mattina alla sera come fece Sergio Cragnotti, messo alla porta da Geronzi e dalla Banca di Roma (allora Capitalia) senza prendere un euro nonostante fosse in possesso della maggioranza assoluta della società. Quello che si chiede, è un gesto alla Moratti, quello che LEI stesso ha definito un gran presidente e soprattutto un gran signore. Moratti ama l’Inter come e più della sua famiglia, ha vinto tutto quello che c’era da vincere ma ha capito che per il bene dell’Inter doveva cercare qualcuno disposto ad investire quello che lui non poteva più investire. E parliamo di Moratti, di una delle dieci famiglie più ricche d’Italia. Moratti ha cercato in giro per il mondo un Thohir in grado di far fare il salto di qualità all’Inter e glielo ha fatto mettere nero su bianco questo impegno, al punto che se non dovesse fare gli investimenti promessi la società tornerebbe nelle mani sue e della sua famiglia.
Alla gente laziale non servono lettere per ritrovare un minimo di entusiasmo e di speranza. Ai laziali basterebbero poche parole: “Se c’è qualcuno disposto a fare grande la Lazio investendo cifre che io non posso spendere, che si faccia avanti e davanti ad un’offerta seria potrei passare la mano”. Questo sogna di sentirle dire o scrivere la gente laziale. Perché sono i sogni e la speranza di un futuro diverso la linfa vitale della vita e del calcio. E LEI i sogni li uccide da anni con le sue promesse di “solide realtà”. Perché con LEI alla guida della Lazio, lo scudetto non è neanche un sogno, è un qualcosa di irrealizzabile. Forse lo sarebbe lo stesso con qualcun altro al suo posto, visto che in 113 anni lo hanno centrato solo Lenzini e Cragnotti, ma solo l’idea di poterci provare, di poter lottare e competere riaccenderebbe quella fiammella che oramai si è spenta. Perché quando nelle ultime stagioni ci siamo ritrovati in testa, anche da soli, nessuno si è illuso come sarebbe successo in passato. Perché già conoscevamo il finale della storia, perché già sapevamo che a gennaio LEI avrebbe ucciso ogni tipo di sogno e di speranza non solo non rinforzando la squadra, ma addirittura indebolendola come successe nell’inverno in cui serviva un vice Klose e ceduto Cisse Tare presentò con orgoglio Alfaro, spacciandolo per un attaccante. Oppure come è successo a gennaio dello scorso anno, quando LEI e Tare avete presentato Saha e Pereirinha come se fossero sbarcati a Formello i novelli Crespo e Sergio Conceicao.
Per questo non siamo delusi dell’avvio di questa stagione, siamo solo rassegnati e quindi apatici, perché come sarebbe andata quest’anno lo avevamo capito già in estate, senza farci ammaliare da chi parlando e scrivendo per bocca sua e di Tare parlava di super squadra, di rosa da Champions League, di Petkovic che aveva a disposizione due titolari di pari valore in ogni ruolo, spacciando per un giocatore di calcio anche Vinicius, che in pochi mesi è riuscito addirittura a frantumare il record di infortuni stabilito lo scorso anno da Ederson e insediando la leadership di Konko.
Quindi, non servono lettere, servono fatti presidente. Serve un taglio netto con il presente e con il passato e una porta aperta verso il futuro. La porta da cui LEI dovrebbe uscire, più ricco di oggi e magari anche applaudito, per far entrare un Thohir o comunque qualcuno in grado di investire nella Lazio più dello ZERO che lei ha tirato fuori dalle sue tasche dall’estate del 2004 a oggi. Visto che da 112 mesi a questa parte, la Lazio vive di quello che produce la Lazio. E senza neanche uno straccio di sponsor e di nuove entrate, è già un miracolo stare dove stiamo e in futuro possiamo sperare solo di restare a galla per continuare a navigare in un mare di mediocrità.
STEFANO GRECO – LAZIOMILLENOVECENTO
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