Ci sono volte in cui le dita scivolano veloci sulla tastiera, in cui scrivi di getto, senza fermarti a rileggere quello che hai scritto e tantomeno a pensare. Scrivendo di Antonio Sbardella, invece, mi sono arenato più di una volta. Un po’ per l’amicizia che mi lega a suo figlio Poppy, quasi un fratello minore, un po’ per l’amicizia più recente con sua figlia Marina, collega a TMC, ma soprattutto perché la sua è stata una delle figure più controverse nella storia della Lazio. Raramente in vita mia ho sentito pareri diametralmente opposti su un personaggio. Arcadio Spinozzi, ad esempio, lo odiava, lo considera ancora oggi la fonte di tutti i mali della Lazio e del marciume del calcio, alla stregua di Moggi, ovvero di uno dei più grandi nemici di Antonio Sbardella. Angelo Pesciaroli (grande “maestro” per i giornalisti sportivi della mia generazione) e tanti altri, invece, me lo hanno sempre descritto come un uomo duro, autoritario, ma di gran cuore. Visto che da quando sono nato ho deciso di fare sempre di testa mia nella vita, ho deciso di raccontare lo Sbardella che ho conosciuto io, da giovane tifoso prima e da giornalista alle prime armi poi. Anzi, “don Antonio”.
Nato a Palestrina, in provincia di Roma, il 17 ottobre del 1925, Antonio Sbardella decide di diventare arbitro nel 1954, a 19 anni, convinto da Lino Raula, un amico d’infanzia che arbitra in serie C. La sua prima direzione arbitrale, lui la racconta così:
“Era un match tra la rappresentativa degli erbivendoli e quella dei macellai, sul campo della mia vecchia squadra, l’Artiglio. In campo le cose si misero subito male e in tribuna, in mezzo a tanti amici, c’ era pure mio padre che gridava: ‘Menateje, così smette subito de arbitrà!’. Uno dei macellai purtroppo gli diede retta: mi spintonò, io reagii colpendolo con un pugno. E tutto finì inevitabilmente in una rissa gigantesca”.
Una carriera finita ancora prima di iniziare? Neanche per sogno. Dopo pochi mesi, infatti, un dirigente arbitrale dice di lui: “Sua madre mi sa che quando era neonato invece che il ciuccio gli ha messo in bocca un fischietto”. La sua ascesa è repentina. In campo è autoritario e le sue decisioni gli costano pesanti contestazioni. Nel 1967, a Livorno, dopo esser stato aggredito e picchiato, per sfuggire al linciaggio dei tifosi di casa è costretto a restare per ore chiuso dentro lo stadio protetto dalla polizia. La scintilla che accende la miccia è la ripetizione di una punizione a favore del Monza perché calciata prima del suo fischio: al secondo tentativo il Monza segna e succede il finimondo, con i tifosi che invadono il campo e distruggono anche la cabina della Rai da dove va in onda la radiocronaca della partita. Sbardella diventa il vero rivale di Concetto lo Bello, il principe dei fischietti italiani. Nel 1970, la Fifa sceglie Antonio Sbardella per rappresentare l’Italia ai Mondiali in Messico e lui conquista tutti, colleghi e designatori arbitrali, cucinando pentoloni di pasta all’Amatriciana, ma anche gli osservatori. Dopo aver arbitrato alla perfezione un delicato Perù-Bulgaria, sembra destinato a dirigere la finalissima, ma l’inaspettata vittoria dell’Italia nella storica infinita semifinale con la Germania, lo relega alla finale per il 3° e 4° posto, ma alla fine viene premiato con il fischietto d’oro come miglior arbitro del Mondiale. A fine torneo riceve numerose offerte per diventare arbitro professionista, invece decide di tornare in Italia, ma alla fine della stagione ’70-’71, dopo 167 partite arbitrate in A e 70 all’estero, tra lo stupore generale decide di lasciare senza nessun preavviso il mondo arbitrale e passa dall’altra parte della barricata, firmando con Umberto Lenzini un contratto da Direttore Generale della Lazio, il secondo amore della sua vita.
E’ l’estate del 1971, la squadra è appena retrocessa in serie B e la società vive l’ennesima grave crisi economica. Sbardella prende in mano la situazione, chiede tre anni di tempo ma promette di portare in pareggio il bilancio e di riportare la Lazio in serie A. Per riuscirci, sceglie la via più difficile. Non cede alle pressioni della piazza romana e del potente movimento d’opinione che invoca il ritorno in panchina di Juan Carlos Lorenzo. Di quel movimento, chiamato “La coscienza della Lazio”, fanno parte giornalisti, ex dirigenti, tifosi più o meno influenti, e gode dell’appoggio anche di giocatori importanti come Giorgio Chinaglia. Sbardella non ascolta nessuno. Mentre la squadra agli ordini di Bob Lovati è impegnata nella Coppa delle Alpi (che vince), lui con un blitz ingaggia Tommaso Maestrelli. Ben sapendo che quella mossa è destinata a suscitare polemiche, chiede aiuto all’allora direttore de “Il Corriere dello Sport”, Antonio Ghirelli.“Mi conceda qualche mese di tempo, mi protegga le spalle con il suo giornale, perché qui l’aria che tira non è salubre”.Ghirelli, fingendo di assecondarlo gli fa decidere addirittura il nome del giornalista che deve seguire la Lazio. Sbardella sceglie Angelo Pesciaroli, scambiandolo per un parente dell’ex arbitro Carlo Pesciarelli. Ghirelli convoca Pesciaroli e gli dice: “Non so perché ti ha scelto, tu fai finta di essergli amico ma vai avanti per la tua strada, senza nascondere nulla di quello che succede”.
E così va. Convinto di avere le spalle coperte, Sbardella va avanti per la sua strada adottando una linea dura sia con la squadra che con i tifosi. Riesce a far firmare tutti i giocatori prima della partenza per il ritiro di Padula facendo pesanti tagli ai contratti, pari a circa 100 milioni di lire. Una cifra enorme all’epoca. A ottobre la squadra rifiuta di partire per Terni per i premi della Coppa Italia non pagati e Sbardella denuncia 16 giocatori alla Commissione Disciplinare. Ma in quel clima di guerra totale la Lazio non può fare molta strada. Sbardella lo sa e organizza una cena alla “Campagnola”, un ristorante a due passi da Tor di Quinto che oltre ad essere la seconda casa di Bob Lovati è un punto di ritrovo di molti giocatori, dirigenti e tifosi laziali. Alla cena, tramite Tonino Di Vizio, capo tifoso e suo vicino di casa a via Apuania, nei pressi di piazza Bologna, invita i maggiori rappresentanti de “La coscienza della Lazio” e come aveva fatto con Ghirelli chiede tempo e fiducia. “Lasciatemi lavorare in pace e io vi garantisco che porterò la Lazio ai vertici del grande calcio”. L’accordo è siglato da una stretta di mano e prima di uscire dal ristorante Sbardella dice:“Ricordatevi questo nome che vi dico ora: Lionello Manfredonia. E’ un ragazzo di 15 anni che ho preso dal Don Orione in cambio di una muta completa di maglie, meno di 500.000 lire. Arriverà in Nazionale”.
Non ha mai giocato a calcio Antonio Sbardella, ma nella scelta dei giocatori ha un fiuto eccezionale. Quando cede Peppiniello Massa all’Inter per 200 milioni di lire e Frustalupi, e con i soldi incassati acquista Re Cecconi, Pulici (su suggerimento di Silvio Piola) e Garlaschelli, subisce una feroce contestazione, ma alla fine ha ragione lui. Ha promesso di riportare la Lazio tra le grandi del calcio italiano e lo fa. Promozione in serie A il primo anno, scudetto perso all’ultima giornata nella seconda stagione e tricolore il terzo anno. E l’uomo più importante di questo ciclo è proprio Tommaso Maestrelli, l’allenatore che ha scelto contro tutto e contro tutti. Sbardella, però, non festeggia insieme alla squadra la conquista del primo tricolore della storia della Lazio. A marzo del 1973, infatti, si consuma il divorzio con la società. Stanco di dare multe ai giocatori (Chinaglia in testa) per poi vedere il suo lavoro vanificato dal “buonismo” di Lenzini, chiede al presidente “carta bianca”, ma invece che i pieni poteri si vede revocare una parte delle deleghe ricevute al momento della firma del contratto. A quel punto, cede alla corte del presidente della Roma, Anzalone, e il 15 marzo in una lunga lettera a “Il Corriere dello Sport” pubblica la sua verità spiegando i motivi di quella clamorosa rottura.
Io conosco Sbardella all’inizio del 1981, quando torna alla Lazio richiamato dai fratelli Lenzini. Sono amico di suo figlio Poppy, che ha 14 anni, gioca con le giovanili della Lazio ma la domenica, in casa o in trasferta, sta sempre vicino a me in Curva. Poppy diventa una sorta di fratello minore.“Controllamelo, quello è una testa calda e prima o poi si metterà nei guai”, mi dice un giorno Antonio Sbardella sotto la sede di via Col di Lana. E non ha tutti i torti, perché Poppy va a giocare nella Primavera della Fiorentina, ma la domenica (quando non gioca o è squalificato) si dà appuntamento con Paolo Di Canio per seguire la Lazio in trasferta. Ma affidarlo a me, in quel periodo, era un po’ come far cadere Poppy dalla padella alla brace, visto che ero più matto di lui. Ai miei occhi, quando lo conosco, Sbardella è un personaggio leggendario, non meno di Chinaglia e Maestrelli, perché è l’uomo che ha costruito la Lazio dello scudetto. Mi prende sotto al sua ala protettiva, mi porta dentro la sede, dove assisto ad un paio di scontri feroci tra lui e Luciano Moggi, rampante direttore sportivo assunto dai Lenzini prima della retrocessione in serie B della squadra per lo scandalo scommesse. Il braccio di ferro tra Moggi e Sbardella dura settimane, mesi, poi alla fine è Moggi a cedere e a lasciare la Lazio. Sbardella assume così i pieni poteri e la sua prima mossa è quella di “proteggere” Giordano e Manfredonia, il più grande capitale di quella Lazio. Sono squalificati, i tifosi li insultano, ma lui decide di aggregarli alla prima squadra, per proteggerli, per farli sentire importanti, ma anche per convincerli a non cedere alle lusinghe di Dino Viola che cerca in tutti i modi di portarli alla Roma. Sbardella è furbo, diabolico: mentre Giordano è ancora squalificato promette di venderlo ad una decina di squadre, in cambio di cospicui anticipi. Lo vende alla Fiorentina, all’Udinese, sapendo che tanto Giordano poi rifiuterà il trasferimento. Intanto lui incassa soldi importanti. Arriva così, ad esempio, tramite l’allora patron dell’Udinese, lo sponsor “Seleco” sulle maglie della Lazio, che altro non è che un anticipo su una cessione che non avverrà mai. Con Gian Chiarion Casoni impegnato a far tornare i conti, Sbardella tra il 1981 e il 1983 ha quel potere assoluto che ha sempre chiesto ma che non ha mai ottenuto nella sua prima esperienza laziale. Riporta a Roma dopo un anno d’esilio a Torino Vincenzo D’Amico e pezzo dopo pezzo ricostruisce la squadra. E riporta la Lazio in serie A. Lo incontro il giorno della promozione a Cava dei Tirreni e tra migliaia di volti sorridenti lui è l’unico con le lacrime agli occhi, ma non per la gioia. Da qualche settimana, Giorgio Chinaglia si è riaffacciato, deciso a rilevare a furor di popolo la società. Io, chiaramente, faccio parte di quel popolo che sogna e spinge per il ritorno di Giorgio Chinaglia. Sbardella sa che con l’arrivo del suo grande nemico di un tempo sarà costretto a lasciare un’altra volta la Lazio, anche perché Long John ha deciso di dare il posto di “don Antonio” a Felice Pulici. Sotto la sede di via Col di Lana, quando Gian Chiarion Casoni accetta di cedere la Lazio a Chinaglia, per la prima volta Antonio Sbardella mi affronta a muso duro: “Ci state costringendo a mettere la Lazio nelle mani di un folle”, mi dice con un’espressione che non riuscirò mai a dimenticare, “questo è un pazzo, porterà la società verso la rovina”. Ci rimango male, prendo quelle parole come lo sfogo di un uomo ferito che si ritrova all’improvviso fuori dal suo ambiente. Invece, a conti fatti ha ragione lui anche quella volta. Giorgio non è pazzo, ma accecato dal troppo amore per la Lazio e dal suo ego smisurato, in meno di tre anni porta una società risanata ad un passo dal fallimento.
Renato Ziaco si ammala e Sbardella è uno dei pochi a stargli accanto fino alla fine. Ha lasciato la Lazio, ma resta vicino a Bruno Giordano, che considera il suo quinto figlio. Quando Chinaglia decide di cederlo, Bruno per decidere il suo futuro si affida a Sbardella che organizza un colloquio con Italo Allodi, all’epoca Direttore Genarale del Napoli. Il no di Bruno nell’estate del 1984 al trasferimento alla Juventus, aveva segnato la definitiva rottura tra Giordano e Chinaglia. L’anno successivo, dopo la retrocessione in serie B della Lazio, Long John vuole accettare l’offerta della Roma. Giordano rifiuta perché sa che quel trasferimento scatenerebbe un putiferio in città e con la consulenza di Sbardella firma per il Napoli. All’incontro decisivo, Bruno spara una cifra folle d’ingaggio, “don Antonio” lo guarda male, ma Italo Allodi accetta senza battere ciglio e alla fine dice: “Chi più spende, meno spende. Se prendi un campione sei a posto per anni. Se prendi uno mediocre, poi devi acquistarne un altro o altri due e alla fine spendi di più”. Dopo l’esperienza alla Lazio, “don Antonio” entra nella Federcalcio. Nella Lega Nazionale Dilettanti, fonda la Divisione Calcio a 5, di cui diventa presidente. Il 7 giugno del 1992, su invito dell’allora presidente della LND, Giulivi, si presenta alle elezioni e viene nominato Presidente del Comitato Regionale Laziale. Nonostante la malattia, resta alla guida del Comitato Regionale Laziale per quasi 10 anni. Festeggia da tifoso i successi della Lazio di Cragnotti, poi il 14 gennaio del 2002 si spegne all’ospedale Fatebenefratelli, sull’isola Tiberina. Ai suoi funerali, partecipano oltre 5000 persone.
STEFANO GRECO
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