GASCOIGNEGascoigne arrestato! La notizia, lanciata dall’edizione online del “Mirror”, in pochi minuti fa il giro del Mondo e nel leggerla si riapre una ferita, va in frantumi per l’ennesima volta la speranza cullata in quei giorni di fine novembre, quando invecchiato ma sorridente e felice aveva giurato a tutti di esser finalmente uscito dal tunnel. Invece, l’equilibrista della vita è caduto ancora una volta dal filo su cui cammina, sospeso tra speranza e tragedia, tra disintossicazioni e ricadute tra alcool e droga, i demoni che lo tormentano da sempre.

Stazione di Stevenege, nell’Hertfordshire, a circa 30 miglia a nord di Londra. Paul Gascoigne è ubriaco, pesantemente ubriaco raccontano alcuni testimoni, e all’improvviso inizia a discutere con una guardia giurata in servizio: dalle parole si passa ai fatti, con Gazza che si lancia contro l’uomo della sicurezza, lo prende per il collo e lo sbatte contro un muro, poi aggredisce pesantemente anche Sheryl, l’ex moglie, che in quel momento era lì con lui. Paul Gascoigne finisce in carcere, nuovamente dietro le sbarre chiuso in una cella di sicurezza, dove rimane per 12 ore in stato di fermo di polizia, prima di finire davanti ad un giudice che lo rilascia dopo il pagamento di una pesante cauzione, ma tra qualche settimana dovrà affrontare un altro processo, l’ennesimo, per aggressione e ubriachezza molesta.

E dire che quel viaggio della speranza negli Stati Uniti, aveva illuso un po’ tutti. Lo aveva giurato in quei giorni di fine novembre a Roma di voler dare una svolta definitiva alla sua vita e in quella clinica americana specializzata in disintossicazione da alcool e droga, lo avevano rimesso a nuovo. Non avevano cancellato le righe e i segni dell’invecchiamento precoce causati da una vita sregolata, ma gli avevano ripulito per l’ennesima volta l’anima, tanto che Bianca, la figlia avuta dal matrimonio con Sheryl, aveva dichiarato: “E’ guarito, questa volta si è completamente disintossicato”. E invece no…

Tornato in Inghilterra, ben presto sono ricomparsi i demoni ad agitare quel filo su cui questo equilibrista della vita cammina da sempre, soprattutto da quando ha appeso gli scarpini al chiodo e si sono spente le luci della ribalta.

E’ sopravvissuto a tante cadute Paul Gascoigne: a due matrimoni falliti miseramente, a tante notti passate in carcere, a due operazioni in cui è rimasto sospeso tra la vita e la morte, ad una serie infinita di tentativi di riabilitazione sfociati poi in nuove ricadute che lo hanno portato a tentare due volte il suicidio. Grande e maledetto, come tanti campioni britannici, con quel fantasma di George Best che lo segue e lo tormenta da una vita. Il fuoriclasse irlandese, Pallone d’Oro nel 1968, è l’esempio di come genio e follia possono convivere all’interno dello stesso corpo, fino a quando il lato oscuro non prende il sopravvento. George Best è morto a 56 anni, stroncato da un’infezione epatica causata dall’abuso di alcool, l’unico compagno fedele della sua vita sregolata. “Ho speso molti soldi per alcool, donne e macchine veloci…il resto l’ho sperperato”, ha detto una volta George Best, e quella frase è diventata un po’ il suo epitaffio. Ma quella frase racchiude in poche parole anche l’esistenza di Paul Gascoigne, che di anni ne ha 46 anche se ne dimostra una decina in più, con quel volto scavato che se non fosse per quegli occhi di un celeste ancora intenso lo farebbe assomigliare al fantasma del campione che fu.

Mi è rimasta impressa l’immagine di Paul Gascoigne durante quel giro di campo prima di Lazio-Tottenham. In quei minuti è sembrato felice, è tornato indietro di 17 anni rivedendo la sua immagine di giovane campione stampata su una bandiera che sventolava in Curva Nord. Ma la prima cosa che ho pensato è stata che senza un seguito, quella passerella mediatica non sarebbe servita a nulla, se non a dare a chi l’aveva messa su titoli sui giornali e immagini o foto destinate a fare in pochi minuti il giro del mondo, come la notizia di questo arresto, di questa ennesima caduta. Paul Gascoigne a Roma ci doveva restare, bisognava trovare un modo per farlo entrare nella Lazio, per farlo sentire importante tutti i giorni e non solo per 48 ore, magari mettendolo a lavorare con i ragazzi facendo l’unica cosa che ha fatto bene nella vita: trasmettere magia con una palla tra i piedi.

Sia chiaro, non è un’accusa alla Lazio, perché come noi nessuno degli altri club per cui Paul Gascoigne è stato un giocatore simbolo, una bandiera, hanno mosso un solo dito per dargli un lavoro nel mondo del calcio. Non lo ha fatto il Newcastle, la squadra in cui è cresciuto, non lo ha fatto il Tottenham, la società in cui si è affermato. Ma quello che mi fa male è che non l’abbia fatto la Lazio, perché qui in Italia, lontano da certi fantasmi e da certe cattive compagnie, forse l’equilibrista della vita avrebbe potuto continuare a camminare su quel filo, senza rovinose cadute e disperati tentativi di ripartire da zero. Non l’ha fatto la Lazio di Cragnotti e non l’ha fatto la Lazio di Lotito. Forse sarebbe stato inutile, forse neanche Roma e l’affetto dei tifosi laziali sarebbe servito, ma felice come quella sera del 22 novembre Gazza non lo avevo mai visto da quando aveva appeso gli scarpini al chiodo. Ma non è successo, quindi inutile pensarci. Ma ogni volta che arriva da qualche parte del mondo la notizia che l’equilibrista della vita è caduto un’altra volta da quel filo sempre più sottile che lo tiene sospeso tra la vita e la morte, si riapre la ferita. Perché per quelli della mia generazione Gazza è Gazza, è il simbolo della rinascita, anzi della nascita di una Lazio diversa da quella che per più di due lustri aveva lottato tra la vita e la morte sportiva, in un continuo saliscendi tra la Serie A e la Serie B, cadendo e risalendo dal filo proprio come lui: il primo grande campione dell’era Cragnotti, il primo dopo Giorgio Chinaglia a portare il nome Lazio in giro per il mondo. E allora, da lontano, non ci resta che sperare che quel filo non si spezzi, che questo sia solo un episodio e non l’ingresso in un tunnel senza uscita.

STEFANO GRECO



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