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Calciomercato Lazio

Lezioni, considerazioni e disillusioni di una notte di fine estate…

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diasNoi laziali vecchio stampo non siamo abituati a correre dietro ai risultati e soprattutto a cambiare idea e umore a seconda di una vittoria o di una sconfitta. Quelli come me, additati ultimamente come “nemici della Lazio” solo perché non hanno dimenticato certe cose e si rifiutano di cancellare il passato e di abbracciare chi guida questa società in nome di una presunta PAX LAZIALE che esiste solo di facciata, in questa mattinata assolata del 19 agosto pensano le stesse cose che pensavano nell’altrettanto assolata ma meno calda mattinata del 27 maggio. Quel giorno non stavamo in Paradiso per un successo comunque importante e di portata storica, così come oggi non siamo a terra per una sconfitta pesante, più umiliante per come è maturata che per il punteggio. Questo, perché per noi la parola COERENZAha ancora un significato ben preciso e non è uno dei tanti vocaboli infilati nel dizionario della lingua italiana, ma è un valore in cui crediamo da sempre e che cerchiamo di tramandare di padre in figlio come la fede laziale e il senso di appartenenza.

La premessa è lunga, lo so, ma per quel che mi riguarda è indispensabile per spiegare meglio il significato di quello che sto per scrivere. Da nove anni Lotito ci ripete che è vietato sognare, pretende piedi ben saldi in terra, ripete come un disco rotto che lui “non vende sogni ma solide realtà”. Questa cosa mi ha sempre infastidito, perché togliere ad un tifoso (di qualsiasi età, perché il tifoso vero non cresce mai e resta sempre bambino quando parla di calcio…) la possibilità di sognare, è come tarpare le ali ad un’aquila abituata a volare libera nel cielo. Ed è un boomerang, perché fino a quando le cose vanno bene ci si salva, ma se poco, poco la ruota gira, allora sono dolori. Stando ai parametri lotitiani, oggi si dovrebbero aprire processi stile Norimberga, con Lotito nei panni di Heinrich Himmler (solo perché Hitler era morto suicida…), Tare in quelli di Josef Mengele, Petkovic in quelli di Hermann Göring e il “biondino” (e tutti quelli che in queste settimane hanno parlato di mercato fantastico o quasi della Lazio) in quelli di Joseph Paul Goebbels, il capo della propaganda dello sconfitto partito nazista. Tutti alla sbarra per rispondere della “solida realtà” di una sconfitta umiliante, la peggiore nella storia della Lazio in una finale con un trofeo in palio, per il punteggio, per l’andamento della partita e perché maturata per giunta in casa. Ma per come la vedo io, questo non è il momento dei processi, semmai è il momento di riflettere, di tornare con i piedi ben saldi in terra e di capire se e come si possono correggere certi difetti oramai strutturali di questa squadra e che non potranno essere risolti nelle ultime due settimane di mercato. Non perché non ci sia tempo, ma perché non ci sono né i soldi né la voglia di farlo. Altrimenti, da maggio in poi ci si sarebbe mossi in modo diverso, lasciando da parte i proclami, il gruppo coeso e il mercato aperto H24.

Quella finale del 26 maggio è entrata nella storia, quel finale non lo baratterei con niente, ma se vogliamo tornare ad essere i laziali di una volta, quella coppa alzata in cielo e in faccia ai nemici di sempre ha offuscato la mente a tanti. A troppi. Da quel giorno, tutto quello che toccava Lotito veniva dipinto come oro, tutto quello che diceva veniva preso per oro colato, anche se era evidente che al massimo si trattava di argento placcato oro, quindi destinato a scolorire e tornare ad essere quello che era in realtà. Il punto di riferimento per una società intenzionata a correggere veramente i difetti strutturali e ad allestire finalmente una squadra in grado di fare il salto di qualità tanto atteso, non doveva essere quella coppa alzata al cielo il 26 maggio, ma quel settimo posto in campionato, quel piazzamento alle spalle di Udinese e Fiorentina e poco avanti alla peggiore Roma e alla peggiore Inter degli ultimi 20 anni. Doveva essere l’ennesimo crollo accusato dalla squadra da febbraio a maggio, nonostante il cambio di allenatore e quindi di guida tecnica e di metodi di allenamento, a dimostrazione che il vero problema non era chi stava al volante, ma la macchina.

La Lazio è una squadra vecchia, non tanto nell’età media della rosa, quanto nell’età dei titolari in certi ruoli chiave. E in quei ruoli bisognava agire investendo e pure molto. La Lazio, invece, ha investito ma in ruoli che erano già coperti, dando per l’ennesima volta l’impressione di un mercato fatto più per collezionare nuove figurine che per completare l’album. Perso anche Diakité (che non era certo un fenomeno, ma non era peggio di Ciani e del Dias che vediamo da due anni a questa parte) servivano due centrali veri, fisicamente integri e in grado di rappresentare un’alternativa immediata ad una coppia Biava-Dias che già lo scorso anno aveva mostrato limiti evidenti: sia dal punto di vista fisico che anagrafico, perché 70 anni in due sono tanti, troppi. L’investimento per la difesa, invece, è stato ZERO EURO. Il rinnovo di Cavanda è una mossa intelligente, Vinicius a parametro zero è una scommessa che ci sta come l’acquisto a costo zero di Novaretti. Ma alla Lazio serviva un giocatore vero e Novaretti ieri stava in panchina. E se Novaretti sta in panchina con Biava e Dias in quelle condizioni, i casi sono tre: o Petkovic è un pazzo, o è un incapace oppure Novaretti non è il centrale dominante che serviva come il pane alla Lazio. Non l’ho mai visto giocare, quindi non esprimo giudizi a coglionella come fanno tanti, ma a lume di naso sono portato a pensare che Petkovic non sia né un incapace né un pazzo, ma solo uno che si adatta a lavorare con quello che passa il convento, un po’ come tutti i suoi colleghi, visto che solo gente come Mourinho, Ancelotti e Capello può battere i pugni sul tavolo e pretendere e ottenere i giocatori che vuole. La difesa, insomma, è rimasta la stessa dello scorso anno, quella delle tante e troppe imbarcate, quella che raramente ha dato sicurezza al resto della squadra, eccezion fatta per Marchetti.

L’altro reparto che doveva essere rinforzato e su cui bisognava investire era l’attacco. Da due anni la Lazio è a caccia di un vice-Klose o comunque di un attaccante in grado anche di spalleggiare il tedesco e che ha nei piedi e nella testa una quindicina di gol. Merce rara, lo sappiamo bene, quindi merce costosa, non roba da scambi di figurine o da saldi di fine mercato. In attacco, al momento la Lazio ha fatto ZERO, anzi, meno. Abbiamo perso Zarate (un bagno di sangue dal punto di vista patrimoniale, ma un risparmio di circa 8 milioni di euro come monte ingaggi) e non può essere certo l’arrivo di Perea a colmare la lacuna. E’ bastato vederlo all’opera nel Mondiale Under 20 per capire che tra lui e un Pogba c’è la stessa differenza che si è vista ieri tra la Juventus e la Lazio. E visto che nella Lazio i giovani servono solo per propagandare la bella favola della “cantera”, ma poi al contrario di quello che succede a Barcellona o nella stessa Juventus poi restano a guardare, a che serve strappare al Barcellona Keita e Tounkara, oppure trattenere Rozzi, se poi alla fine giocano sempre gli stessi anche se non si reggono in piedi? Quella che uno come Pogba nella Lazio oggi farebbe ancora panchina è molto più che una semplice sensazione, perché quel“gruppo coeso” nonostante qualche partenza (Brocchi e Rocchi in testa) è sempre poco propenso a vedere un “senatore” sbattuto in panchina da un ragazzino. Ai giovani ci si rivolge solo quando non c’è più neanche un fondo del barile da raschiare, altrimenti si preferisce mandare in campo addirittura gente come Stankevicius e Zauri, come è successo in passato. E questo modo di fare fa a cazzotti con il principio della “cantera”, ma anche della concezione del calcio che ha una squadra come la Juventus, dove per fare spazio a Pogba uno come Conte non si fa il benché minimo problema a lasciare in panchina gente come Marchisio o Pirlo. E’ successo e succederà sempre più spesso. Da noi non è successo con Reja e non succederà neanche con Petkovic.

Ma dove e come li ha spesi tutti quei soldi di cui si parla in giro la Lazio? A centrocampo, nel reparto in cui c’erano più alternative e a lume di naso per prendere giocatori che al momento sono dei doppioni di due titolari all’apparenza inamovibili. Biglia è la copia di Ledesma, anche se un po’ più giovane e sicuramente più dinamico. Felipe Anderson (acquistato rotto e anche questa non è una novità…) è l’alter ego di Hernanes, pagato a peso d’oro forse proprio per coprire in anticipo quel buco che si sarebbe aperto o che si potrebbe aprire con la partenza del “profeta”. Non discuto la scelta, ma restando ai fatti e al presente, mi chiedo se fossero veramente quelle le priorità della Lazio. E non credo di essere prevenuto nel rispondere di NO!

Detto questo, ieri non è successo nulla di irreparabile e non c’è da fare drammi, perché come scritto a caldo il calcio d’estate spesso e volentieri è ingannevole: basta pensare a parti invertite a quel successo ottenuto ad agosto del 2009 a Pechino contro l’Inter che poi avrebbe vinto tutto, mentre dopo quel successo la Lazio rischiò addirittura di retrocedere. Quindi c’è tempo per migliorare e per correggere, c’è tempo per far capire a Petkovic che Klose non può essere abbandonato a se stesso e che il doppio regista (in realtà il doppio mediano di copertura) può funzionare se hai le gambe per sfruttare il contropiede o le ripartenze come si chiamano oggi. Ma se giochi sempre in orizzontale spostando la palla da destra a sinistra senza avere centrocampisti che si inseriscono, Biglia e Ledesma insieme servono a poco in fase offensiva, visto che non hanno neanche un tiro da fuori che fa male con puntualità. Meglio che sia successo ad agosto che a febbraio, ma credo di non essere l’unico a pensare che la lezione di ieri servirà a poco, forse addirittura per niente a chi continua a ripetere che la Lazio è in grado di lottare alla pari con tutti, Juventus compresa. A chi parla di “solide realtà” ma in realtà spaccia sogni, anzi, illusioni…

STEFANO GRECO



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