Libor Kozak torna a parlare della sua parentesi nella Lazio. L’ex attaccante biancoceleste, anche se non ha inciso molto a livello di prestazioni, è sempre stato amato dai tifosi biancocelesti, rimanendo anche nella storia con la formazione del 26 Maggio 2013.
L’attaccante però è tornato a parlare al portale ceco Bez Fràzì, in occasione della sua nuova stagione con lo Slovàcko. Dichiarazioni che risultano pesanti con retroscene agghiaccianti nella sua permanenza con la Lazio.
“Avevo ventiquattro anni e dopo cinque anni di permanenza nel club, culminati con l’essere diventato capocannoniere dell’Europa League nella primavera del 2013, c’era molto interesse nei miei confronti. Avevo diverse offerte tra cui scegliere e fin dal primo momento ho sentito di voler andare in Inghilterra, dove l’Aston Villa era molto interessato a me. Ma il presidente della Lazio è un uomo notoriamente avaro e non ha paura di lasciare fuori dalla squadra i giocatori che sono interessati ad andarsene. È successo anche a me. Mi ha tagliato fuori, ho sofferto tutta l’estate in attesa del permesso di trasferirmi. Volevano sempre più soldi per lasciarmi andare, arrivando anche a chiedere dieci milioni di euro, che ovviamente nessuno avrebbe pagato all’epoca. Le trattative si sono trascinate e io ero nervoso. Eppure Tare, in qualità di direttore sportivo, mi ha rassicurato per due mesi di fila che tutto si sarebbe risolto. Poco prima della scadenza del termine per il trasferimento, ha affermato che la situazione si sarebbe risolta subito, che si sarebbero seduti con il presidente e i dirigenti dell’Aston Villa, lui avrebbe convinto Lotito ad accettare la cifra offerta e io sarei potuto andare. Il mio agente era presente alla riunione e mi ha detto che Tare era quello che voleva sempre di più e ha consigliato al presidente di non approvare il trasferimento. Su sollecitazione, mi consigliò che se volevo ancora andare avanti, dovevo andare da Tare e dirgli cosa pensavo di lui. Ci siamo incontrati nel garage del centro sportivo, feci un respiro profondo, mi feci forza e cominciai a imprecare. Ho detto a Tare cose molto pesanti, non so da dove mi siano venute e ancora oggi mi sento in colpa per questo. Lui mi afferrò per il collo e iniziò a urlare. I giovani calciatori ci giravano intorno e preferivano distogliere lo sguardo, facendo finta di non essere lì. A casa mi addormentai piangendo. Ho chiamato i miei genitori e ho detto loro che non sapevo cosa mi sarebbe successo perché avevamo litigato con la direzione. La mattina dopo ho visto il numero di Tare squillare sul mio telefono. Non volevo rispondere alla chiamata, temevo che avrebbe annunciato la rescissione del mio contratto o che mi avrebbe minacciato di fare in modo che non giocassi da nessun’altra parte. “Fai i bagagli, il trasferimento è organizzato”. Non credo che capirò mai come funzionano queste cose e cosa è cambiato all’improvviso. Ho letto sul giornale che Tare mi augurava il meglio nel mio nuovo club e che ero un grande professionista per lui. Non me la sono bevuta affatto. A due giorni dalla scadenza dei trasferimenti, sono andato a Birmingham per unirmi alla squadra nella competizione più seguita al mondo. Ho capito subito che era la volta buona. L’Italia mi aveva fatto diventare un attaccante per il grande mondo del calcio, ma solo nell’ambiente inglese mi sono sentito me stesso. Le risse, il gioco duro, i lividi. Per cinque mesi ho vissuto in una favola calcistica.
Pavel Nedved? La mia prima partita da titolare titolare della Lazio è stata anche l’ultima della sua carriera, e non riesco nemmeno a descrivere ciò che ho percepito in quel grande ingresso in campo. Tutto quello che so è che vedere Pavel accanto a me mi ha fatto capire che tutto era possibile. Se ci è riuscito lui, perché non posso farlo io? Questo pensiero mi ha fatto venire un’irrefrenabile voglia di lavorare. Quel giorno abbiamo perso 0-2 a Torino, ma credo di aver fatto bene. Delio Rossi invece aveva un’opinione un po’ diversa su come gestire una situazione accaduta nel primo tempo, quando andando da una parte all’altra del campo, la palla ha rimbalzato e ho cercato di superare Gigi Buffon. Così all’intervallo, quando sono arrivato nello spogliatoio, Rossi mi ha preso per il collo, a quanto pare è il modo preferito di comunicare in Italia, e mi ha urlato: “Che pensi di fare qui a diciannove anni, spodestare Buffon?”. Dopo una splendida annata in serie B con il Brescia, con cui siamo stati promossi in Serie A, sono stato inserito stabilmente nella rosa della Lazio e sono iniziati i bei tempi. Facevo molte presenze, segnavo gol, giocavamo in Europa League per tre anni di fila e mi sembrava che qualsiasi cosa facessi, qualsiasi cosa decidessi, fosse giusta. Mi sentivo il re del mondo, stagione dopo stagione arrivavo sempre più in alto. A scuola mi trovavo abbastanza bene, gli stessi insegnanti venivano a fare il tifo per il calcio ed erano amichevoli con me. Probabilmente è per questo che sono riuscito a finire il mio diploma di scuola superiore prima di andare in Italia. Quando sono arrivato a Roma con la mia Fabia tuning con i vetri neri, le ruote fuse e l’alettone, non avrei pensato che ci sono cose brutte nella vita, anche se l’allenatore della Lazio mi disse già al primo allenamento che non ero ancora pronto per la Serie A e che dovevo inserirmi nella Primavera. Non l’ho nemmeno presa male, ho capito che se doveva succedere, sarebbe stato meglio per me e non mi sono stressata. Ma subito dopo hanno iniziato a costruirmi, sono arrivati i primi gol e alla fine di aprile ero in squadra.
Nel calcio si vede sempre qualcuno intorno a noi che ha qualche problema di salute. Ovunque nei club ci sono ragazzi che magari non giocano per metà anno, anche nella Lazio c’erano, ma io facevo finta di non vederli. Non volevo ammettere che esistesse una lesione a lungo termine e che forse poteva capitare a me. Alla Lazio non andavo nemmeno dai massaggiatori, non sentivo il bisogno di muovere qualcosa di doloroso prima delle partite, non conoscevo qualcosa come il taping. I miei compagni di squadra, che passavano molto tempo sul divano, li vedevo piuttosto indolenziti. Mi sentivo come se nulla potesse durare.
Ho sempre giocato duro e senza troppo rispetto. Nella mia prima stagione completa alla Lazio, mi sono messo nei guai: contro il Milan, ho mandato due giocatori all’ospedale. Prima, Bonera, che ho preso a gomitate e ha aperto la testa. Al suo posto è entrato Legrottaglie, un veterano che in un tackle è andato a testa bassa sul pallone, mentre io sono entrato con il piede. Gli ho inciso il sopracciglio sopra l’occhio. C’era sangue dappertutto. Tutta la loro squadra si è avventata su di me, sui miei compagni di squadra che cercavano di difendermi, e ne è nata una bella colluttazione. Ero finito per me stesso, perché non avevo fatto nulla per fare del male a nessuno. E poi un Ibra arrabbiato mi è venuto addosso. Tutti sanno che Zlatan ha la reputazione di cambiare a volte. Io sono alto, ma lui sembrava essere alto circa tre metri in quel momento. Mi ha guardato e mi ha detto: “Giovanotto, calmati. Dopo la partita ci siamo cambiati le maglie e mi ha anche fatto i complimenti per come avevo giocato bene. Adriano Galliani, era di parere diverso. Ha detto al giornale che dovevo andare in prigione per i miei interventi e ha richiamato gli arbitri contro di me. Ho sofferto nelle partite successive, mi è stato fischiato di tutto. Quasi tutti gli uno contro uno che ho fatto sono finiti in fallo, secondo gli arbitri. Anche se la Lazio mi difese ufficialmente, dicendo che gli arbitri avrebbero rovinato la mia carriera, i tifosi protestarono, ma fu inutile. L’influenza di Galliani era maggiore. Ho detto al telefono al mio agente che non potevo giocare e lui non ha avuto nulla da dire, perché le cose stavano proprio così. Questo è stato uno dei motivi per cui mi sono trovato meglio in Europa League e per cui alla fine volevo lasciare l’Italia”.
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