Pensavo di svegliarmi all’indomani del derby della capitale n.139 più leggero, più sereno e frivolo, ma non è stato così. Certo la sensazione che ha lasciato la sconfitta di domenica non è quella del pugile suonato e neanche della tragedia irrimediabile, quella l’hanno provata loro il 26 Maggio, ma un po’ di stordimento l’ha provocato.
Perché è vero che non è stata una rivincita e che non potrà mai esserci, ma una piccola vendetta abbiamo permesso che se la prendessero. Lo abbiamo permesso approcciandoci (si dice così…) come ambiente alla partita in modo sbagliato, volendo sminuire il significato del risultato in funzione dell’ultimo storico trionfo, ma forse non era questa l’occasione giusta.
Non era questa l’occasione per lasciare desolatamente vuoto l’unico settore occupato dai tifosi laziali per poi entrare 5 minuti dopo l’inizio in segno di protesta contro chi, a torto o a ragione, aveva impedito una coreografia già organizzata; questo ha voluto dire lasciare completamente la scena ai rivali all’entrata in campo delle squadre, disorientare (ulteriormente…) la squadra e permettere alle telecamere delle TV di indugiare sulla curva Maestrelli senza poter essere accusati di faziosità manifesta.
A tale proposito, vorrei ricordare che in occasione dei derby si è sempre derogato a qualunque proposito di protesta pur di non lasciare la scena al nemico sportivo di sempre. Perché va bene concedergli qualche altra vittoria qua e la nella stracittadina, è fisiologico, ma domenica avevamo l’occasione del colpo del KO, quello dal quale non ci si riprende più, quello che troppe volte in passato abbiamo mancato e che mai come stavolta potremmo rimpiangere di non aver piazzato nel modo e nel momento giusto.
Invece li abbiamo fatti rifiatare, abbiamo concesso loro di mettere su quel 71’ se non una pietra sopra almeno un sassolino, una “breccola”, e non avremmo dovuto. Perché i veri trionfi e la continuità di vittorie si costruiscono così, non concedendo mai niente all’avversario, magari a volte anche umiliandolo per spegnere ogni velleità. Altrimenti il destino è quello di rimanere nel limbo, quello stato di eterno “vorrei ma non posso”, quella sensazione di aver vinto il giro alla prima vittoria di tappa per poi non salire neanche sul podio dopo l’ultima cronometro. Quel limbo per uscire dal quale il Napoli è dovuto andare a prendere a suon di euro allenatore e calciatori con esperienza, qualità e personalità tali da permettergli di battere nello spazio di tre giorni prima i vicecampioni d’Europa e poi il Milan a San Siro. E’ vero che siamo solo all’inizio e che potrebbero essere solo fuochi di paglia, ma se il buongiorno si vede dal mattino questa sarà un’annata dura, durissima…
Perché chi si intende di vittorie afferma che “la vittoria più bella è sempre la prossima”, perché crogiolarsi in quelle passate per quanto recenti e indimenticabili porta inevitabilmente a rilassarsi e a consegnarsi più o meno inconsciamente all’avversario di turno. Lo sappiamo bene noi laziali, che abbiamo perso una finale di Coppa Uefa il 6 Maggio del 1998 con l’Inter soltanto perché sazi dopo la vittoria della Coppa Italia conquistata appena otto giorni prima e arrivata ad interrompere un digiuno di vittorie durato ventiquattro anni. Sono convinto che senza quel 29 Aprile l’Inter, che avevamo sempre battuto in quella stagione, non avrebbe passeggiato al Parco dei Principi, ma ormai è andata.
La squadra domenica probabilmente ha risentito di questo appagamento dell’ambiente tutto. Una squadra che comunque da anni va ad intermittenza, sia come rendimento che come carattere e che denuncia l’assenza di un vero leader e di quella cattiveria necessaria per fare anche sotto questo punto di vista il salto di qualità.
E’ infatti dal 2006, ovvero da quando Di Canio ha chiuso con la Lazio, che non abbiamo più un trascinatore, uno che carica compagni e ambiente e che comunque ci mette sempre la faccia. Simpatico o meno, amato o addirittura additato come traditore, è stato lui l’ultimo vero Capitano della Lazio, l’unico in grado di trascinare i fratelli Filippini (non di nazionalità come qualcuno pensava mentre li acquistava…) ad una vittoria storica il 6 Gennaio 2005, con tanto di gol personale ed esultanza sotto la Sud. Un carattere e una personalità di cui chi dirige (si fa per dire…) la società ha subito pensato bene di disfarsi, guardandosi poi bene dal ricercarla in altri giocatori per non mettere a rischio la propria vetrina mediatica e non solo.
Qualcuno intervistato ieri, ha riferito che Lotito aggirandosi (probabilmente con l’andatura della Pantera Rosa per non attirare l’attenzione!) nei corridoi dell’Olimpico avrebbe detto ai laziali che incontrava: “Contenti?”
No presidente (anche se mi pesa chiamarla così e anche risponderle), non siamo per niente contenti di aver visto gli stessi titolari dell’anno scorso con un anno di più; non siamo contenti di non avere una seconda punta degna di questo nome al fianco o al posto di Klose; non siamo contenti di dover addirittura rimpiangere Novaretti quando vediamo scaldarsi goffamente un Dias ormai lontano anche solo dal somigliare ad un giocatore di calcio. Possiamo consolarci soltanto con il fatto che la sconfitta ci ha evitato di assistere ai suoi soliti soliloqui post vittoria, visto che ormai neanche i bookmaker inglesi quotano più la sua assenza davanti a telecamere e microfoni dopo una sconfitta.
Perché devo riconoscere che su un argomento l’azionista di maggioranza (attuale) ha ragione da vendere: nella rosa ci sono almeno due giocatori per ruolo di pari valore; è che sul quantificare il“valore” che si potrebbe discutere… Una discussione che spetterebbe anche e soprattutto all’allenatore, perché altrimenti se anche lui è convinto che la rosa di cui dispone sia adeguata per raggiungere un piazzamento importante in campionato e arrivare lontano (speriamo non solo geograficamente) in Europa League (tralasciando la Coppa Italia che ormai non calcoliamo più), allora è giusto che cominci a prendersi anche lui qualche responsabilità, visto che a noi sembra di vedere sempre la stessa squadra, sia nell’11 che nell’atteggiamento in campo: fragile in difesa, prevedibile a centrocampo e sterile se non assente in attacco.
Soprattutto, basta ripeterci dopo ogni sconfitta più o meno pesante e cocente che la prossima partita sarà un’altra Lazio, dato che è statisticamente provato che la previsione si avvera sempre meno frequentemente. Anche perché chi umilmente parla di “pallone” ha capito che questo Klose versione “Cisse” non può reggere il peso dell’attacco da solo, e che vista l’indolenza di Hernanes, la stanchezza di Ederson, l’incognita Perea e la cronica assenza dal tabellino dei gol da parte di Floccari, servirebbe forse provare ad affidarsi al giovane Keita (sempre che non si voglia provare a riesumare Sculli o Alfaro); perché inserire un giovane, se di valore, non vuol dire necessariamente bruciarlo. Basta non caricarlo di eccessive responsabilità, farlo giocare nel giusto ruolo e non metterlo da parte al primo errore, alla prima prestazione da dimenticare (vedi Reja con Cavanda dopo il gol di Krasic a Torino) o quando la posta in palio è importante come ieri. Gestire bene i giovani talenti spetta all’allenatore, sennò basta un software simile a Fifa Manager per schierare la formazione e poi dargli indicazioni in campo. Perché questi sono i particolari che fanno la differenza tra un allenatore, un bravo allenatore e un grande allenatore.
Rimane quindi duro ma inevitabile dover ammettere che ancora una volta abbiamo fatto di tutto per rilanciarli, che gli abbiamo dato una spinta che speriamo solo non sia stata determinante per preparare qualche altra peperonata, come non lo fu per fortuna quella sconfitta nel derby del 2010. Perché nel derby di ritorno del 9 febbraio 2014, quando probabilmente saremo fuori dai giochi in campionato per piazzamenti importanti, quando ci saremo mangiati un altro pezzetto di fegato per un mercato di riparazione irreparabile e saremo magari alle prese con i soliti recuperi dai probabili infortuni invernali di Konko, Ederson, Biava e Klose, potrebbe essere troppo tardi.
Ecco perché questa “leggerezza dell’essere” in cui ci siamo voluti calare domenica potrebbe fatalmente rivelarsi… ”insostenibile”.
PAOLO SCAFATI
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