Comunicati, interviste, note e chi più ne ha più ne metta. Negli ultimi tempi non è affatto una rarità imbattersi nelle parole di Claudio Lotito. Questa volta il patron capitolino ha aperto le porte di Villa San Sebastiano, per ospitare Salvatore Merlo de Il Foglio quotidiano. Una conversazione fiume che tocca i temi più disparati: ve la riproponiamo di seguito.
TRATTO DA IL FOGLIO QUOTIDIANO
Dice a un certo punto: “Con me pensavano d’aver preso la vacca per le zinne, e invece hanno preso le palle di un toro”. Non è facile interrogarlo perché è astuto, non è facile raccontarlo perché bisogna tradurre il suo linguaggio (“faccio cento cose insieme, è che so’ sinestetico”), un vitalissimo miscuglio di romanesco e di lingue morte (“est modus in sciaradis”), di affarismo e di furbizia (“in Italia tutti vogliono mungere i presidenti delle squadre di calcio, ma io vi dico che i patròn non sono più cogliòn”), di sbruffonaggine e generosità (“se avessi io i soldi che c’ha la Juve ti assicuro che vincerei tutto”). Obelischi, statue romane, marmo ovunque, mobili neri dalle gambe ricurve, oppure laccati tipo Settecento veneziano e sempre con gambe arcuate e riccioline, oppure a testa di leone. Alla parete ecco una ninfa discinta e secentesca che versa procace del vino da una brocca poco sopra a un tavolino tutto d’oro, che però ha una gamba divelta come pure lo scalcinato divano di pelle a ramages assortiti ha un tremendo buco al centro. Mentre ancora osservo questo salottino di Villa San Sebastiano, sull’Appia Antica, forse uno dei luoghi più belli di Roma, tre ettari di giardino che tuttavia deve aver visto tempi migliori – e lo esamino per oltre due ore in attesa del padrone di casa – Claudio Lotito, presidente della Lazio, sbuca fuori dal nulla. “Non male eh? Qui ci abitava il fotografo del duce, poi ci sono stati i D’Amico, gli armatori. Adesso è il mio quartier generale. Mettiamoci in sala riunioni”. E a questo punto sparisce per un’altra ora, mentre vengo introdotto in un salone buio buio, foderato in mogano, due affreschi appesi alle pareti e staccati chissà da dove (“epoca Pio V”), con l’enorme libreria anticata, il marmoreo camino, e un tavolone rettangolare di almeno sette metri di lunghezza che neanche a casa dei Buddenbrook, tono su tono, nero su nero. Ed è qui che, volitivo e diffidente, chiassoso e instabile, con alle spalle l’opera omnia del Reader’s Digest, Lotito finalmente mi spiega a modo suo la crisi del calcio italiano: “Non escono più buoni giocatori perché è più facile andare a comprare un prodotto finito all’estero anziché coltivare il seme, innaffiare e raddrizzare la piantina. E poi non escono più talenti perché gli italiani so’ viziati. Pieni di sovrastrutture, qua nessuno vuole più faticare. Pretendono”.
La voce di Lotito esce a gruppi sillabici che hanno cesure proprie, come mangiate e morsicate per assaggi famelici. E’ in giacca e cravatta, i polsini della camicia serrati da un paio di gemelli d’argento, panciuti ricordano due aeroplani da traversata intercontinentale. Gli chiedo: perché non eleggete Demetrio Albertini alla guida della Federcalcio? E’ una persona perbene, ha un bel volto pulito. Risposta: “Mo’ ti spiego perché no. Te l’hai letto Kant?”. A scuola. “Kant dice che ce stanno il noumeno e il fenomeno. Il fenomeno è ciò che appare, il noumeno è invece la realtà. Ecco, Albertini è kantianamente un fenomeno. Il calcio adesso ha bisogno di gente che sappia fare, che abbia esperienza manageriale. Ma te pare normale che in ritiro, in Brasile, quelli della Nazionale si sono portati le mogli?”. C’è chi propone Walter Veltroni alla Federcalcio. “Non so com’è venuto fuori. L’ho letto sui giornali”. Lo propone Renzi, forse. “Ah, sì?… Veltroni è quello che ha fatto approvare la legge Melandri. La legge che ha distrutto il calcio italiano. Lassamo sta’, che è meglio. Il calcio va completamente ristrutturato. Bisogna che la Lega di A, i rappresentanti delle squadre, quelli che davvero il calcio lo fanno, contino di più. Adesso c’è un governo pletorico nel calcio, assurdo. Mo’ ce vuole ’na scossa”. Là fuori c’è Renzi, che dà l’impressione di volerla dare una scossa, a tutta l’Italia. “Renzi chi? Quello che ha fatto la legge Nardella sugli stadi? Un pasticcio. Non s’è costruito manco uno stadio grazie a quella legge”. Avvertimenti, accenni dialettali, sentimenti ingigantiti, a volte il viso di Lotito si contrae, gli occhi si fanno sospettosi.
[Improvvisamente gli squilla il cellulare. “Pronto… ah… sì… mi passi il ministro”. Lotito si alza ed esce dalla stanza. Rientra dopo venti minuti]
… “Gli italiani, ti dicevo, sono viziati. Tu, per esempio, fammi vedere che maglietta c’hai addosso. Famme vedè. E’ una Ralph Lauren. Ecco vedi. E c’hai pure il Rolex. Però te non sei ricco. I tedeschi nun so’ così, se vestono male. Nun gli importa de annà in giro con la Ralph Lauren. E infatti lavorano, producono, vincono”…
[Squilla ancora il telefono. Stavolta dev’essere un collaboratore. La conversazione è agitata. Lotito stringe il cellulare come Orlando il suo corno a Roncisvalle. La saliva che copre come rugiada l’apparecchio. “T’ho detto di no. No. No. Nooooo. Quelli prendono anche di meno… Col cazzo che gli do tutti sti soldi. Non vale niente”. Riattacca]
… “Che te stavo a di’? Ah sì. Vedi, quello del calcio è un mondo impazzito. Non se sanno regolà. Gente che non vale nulla e che prende un sacco di soldi”. E Lotito ce l’ha soprattutto con i procuratori, gli agenti dei calciatori. “So’ bestie assatanate”, mi dice. “Nel calcio la gente pensa di aver trovato sempre qualche fesso da mungere. E spesso i fessi sono i presidenti delle squadre di calcio. Ma io non sono fesso. Non mi faccio mungere”. E dunque ecco le famose palle: “Adesso ti faccio un paragone silvano-agreste”, dice. “Con me pensavano d’aver preso la vacca per le zinne, e invece hanno preso un toro per le palle”. La metafora non sarà elegante, ma rende. “I procuratori sono una malattia del sistema. Una volta stavamo facendo una trattativa per un giocatore. Eravamo nel mio studio. C’erano gli avvocati, c’era il mio direttore sportivo, c’erano il calciatore e il suo procuratore. A un certo punto il procuratore mi dice chiaro e tondo che l’affare si chiude soltanto se io do a lui sette milioni di euro. Sette milioni. Praticamente una tangente. Allora io gli dico: ‘ma che, ti pigli più del ragazzo’? Così guardo il giocatore negli occhi e gli dico: ‘E a te te pare normale, non dici niente?’. Non diceva niente, stava muto. E infatti il suo procuratore, urlando: ‘Certo che sta zitto. Lui non pensa. E’ mio’. Ecco i procuratori sono come i negrieri, sono degli estorsori autorizzati”. Alcuni procuratori, i più importanti, sono figli di gente molto potente nel mondo del calcio: Moggi, Lippi… “Ci vuole più trasparenza nel calcio. Ed è anche per questo che io sono per la prova tv”. Anche gli arbitri contano troppo? Silenzio ironico.
Riprende Lotito: “E lo stesso discorso si può fare per la politica. Dove però ci sono pure i ladri. Io a questo proposito ho idee radicali. Se l’amministratore del tuo condominio ruba che fai? Lo cacci. Con i politici dev’essere la stessa cosa”. Obiezione: Ma lei è considerato da sempre molto vicino alla politica regionale, con le sue ditte di pulizia e di vigilanza privata. In particolare a Francesco Storace, a Renata Polverini. E qui, a Roma, c’è stato il famoso Batman. Non proprio il massimo. Lotito s’irrigidisce. “Io ho avuto solo rapporti con le istituzioni. Ma sa che le dico? Le regioni io le abolirei e mi terrei le province. Sto paese va smontato tutto. Ma ci vuole una visione pragmatica. Imprenditoriale”. E’ quello che diceva anche Berlusconi vent’anni fa. Non precisamente una novità. “A Berlusconi l’ha fregato l’apparato. Nei gangli dello stato ce devi mettere la gente tua. De fiducia. Come fa Renzi che ci mette tutti i fiorentini, come il capo dei vigili urbani di Firenze che adesso è all’ufficio legislativo di Palazzo Chigi”. Lei ce l’ha con Gianni Letta. Lotito sorride. “Questo cancellalo tutto”. Ma è vero che lei vuole entare in politica? E lui, con la gestualità da mollusco permaloso, ma con gli occhi rapidi: “Non è questo il punto. Io sono animato da spirito civico. Vorrei solo lavorare per la polis”. Poi uno scoppiettio improvvisamente spavaldo: “Datemi una leva e vi solleverò il mondo”. Nel 2005 dicevano che sarebbe entrato in politica, e anche alle regionali del 2013 lei era sul punto di candidarsi con il Pdl. “Io nun me volevo candidà. Forse qualcuno voleva candidare me…”.
[Driiin, driiin, driiiin. Mentre lo osservo rispondere ancora una volta al telefono comincio a pensare che la mobilità sia la qualità predominante di quest’uomo trafelato. “Ammazza. Urbà, sei tu?”. E’ Urbano Cairo, il presidente del Torino, l’editore di La7. “Me so’ scordato de chiamarti, scusa, stavo ar telefono con una personalità istituzionale. Sì, sì, c’era pure Galliani e parlavamo… sì, sì… uhm… m’hanno fatto fa na fidejussione… sì… il modo, Urbano, nun te mette a ride, non era… non era… non era ‘urbano’… certo c’hai ragione te. Sai come si dice? Similia similibus. Ricordatelo sempre. Siamo in un piccolo condominio, nun te possono piacere tutti. Sai che è? E’ che nun se sa se la gente è ‘psichiatrica o chimica’. Hai visto che giochetto voleva fare Andrea (Agnelli, ndr)?”]
Interrotti da innumerevoli telefonate, la conversazione prosegue con la lievità di uno zoppo che corre. Ma lei quante cose riesce a fare contemporaneamente? “So’ sinestetico”, mi risponde Lotito. Poi mi guarda. “Tu lo sai cos’è la sinestesia?”. Una figura retorica. Come l’inizio della ‘Recherche’ di Proust, dico, sparandola. E un velo di perplessità cala sul volto del presidente della Lazio. Poi il pensiero si aggrega in un’articolazione coerente di parole: “Sì, ma il primo è stato D’Annunzio con la Pioggia nel Pineto”, dice. “‘Piove sui volti silvani’. Questa è la sinestesia. Ecco. Io uso anche quattro telefoni contemporaneamente, uso tutti i sensi. Una volta a un giornalista sportivo gli ho detto che riesco a usare tutti i miei telefoni tutti insieme perché sono sinestetico, e lui è svenuto. Non ha capito un cazzo. Nel calcio non so’ abituati a questo linguaggio. Una volta li ho tramortiti tutti perché ho detto ‘icastico’. La differenza tra nozionismo e cultura è questa. Io sono una spugna. Assorbo”. E mentre ascolto Lotito penso che il suo è lo stesso linguaggio che ha fatto la fortuna di Nino Frassica, uno che andrebbe preso drammaticamente sul serio.
Domando: lei ha fatto il classico? “Certo. E me ricordo tutto. Purtroppo se hai studiato è così”. E qui comincia una specie di mitragliata: “‘Historia magistra vitae’. E poi Vico, ‘corsi e ricorsi storici’. Queste cose le studi a scuola, poi cresci, e lo vedi nei fatti che la vita è davvero così. Noi dovremmo sempre imparare dalla storia”. Ed ecco una massima: “Io sono per un calcio didascalico e moralizzatore”. E ancora: “Il calcio, la vita, ma pure la politica, devono essere ispirate dalla poetica di Manzoni”. Mi chiede: “Te lo sai che diceva Manzoni?”. Mi dica. “Diceva che la poesia deve avere il vero per soggetto, l’utile per iscopo e l’interessante per mezzo. E il politico deve seguire Manzoni”. Allora è vero che vuole entrare in politica. “Io sono per l’impegno civico e civile. Ma ti stavo spiegando le qualità del politico”. Prego. “C’è un altro elemento importante, oltre Manzoni”. E quale? “Pascoli”. Ah. “Pascoli dice che c’abbiamo un fanciullino dentro di noi. Vuol dire che se c’hai delle sovrastrutture la gente diffida di te. Bisogna essere semplici”.
Per esempio Matteo Renzi è semplice. “Renzi c’ha ste qualità. E’ un comunicatore. Ma non so se c’è dell’altro oltre all’apparenza. L’Italia è un paese oppresso dal concetto verghiano della rassegnazione”.
Niente di meno. “Questa è la società dei Malavoglia. E’ questo il nostro guaio”.
Lei era molto bravo a scuola? “Eccerto. Vinsi pure una borsa di studio. I cento migliori allievi d’Italia. La Gazzetta dello Sport non ci credeva. Andarono a recuperare una mia pagella. Nun ce credevano proprio. A me il liceo classico m’ha insegnato tutto. I problemi della Repubblica di Platone sono gli stessi della Lazio o della politica italiana”.
E qui Lotito prende la Montblanc e comincia a scrivere un elenco su un foglio. “Stai attento”, dice. “La Pubblica amministrazione in Italia si divide in Efficienti, Ignavi, e Sfruttatori di posizione. Come lo risolvi? Lo risolvi con la mobilità”.
Il collegamento logico con Platone mi sfugge, ma dev’essere colpa mia. D’altra parte Lotito si sposta da un argomento all’altro con la velocità del suono. Allora gli dico: la politica la interessa molto. “Ma no, io so’ affezionato alla polis come ti ho già detto. Anche la Lazio io l’ho presa per spirito di servizio”.
E qui mi racconta di come ha salvato la squadra dopo il crac di Sergio Cragnotti e della Cirio: “Ho fatto un’operazione geniale col fisco, dilazionando il debito. Ho rimesso il bilancio in equilibrio. Ho preso la Lazio con lo stesso spirito di chi si butta da un ponte con la corda elastica”.
E mentre lo dice sembra provare una candida ammirazione per la propria audacia. “Io pago sei milioni di euro l’anno allo stato di tasse arretrate, che è praticamente il bilancio di una squadra di serie B. E la Lazio adesso è una delle pochissime squadre che producono reddito. Ho scorporato la parte commerciale della società e ho rivalutato il marchio. Poi mi hanno copiato tutti, ho fatto scuola. Una sera, anni fa, ero a cena con De Meo, l’amministratore delegato dell’Alfa Romeo, e gli ho spiegato come si fa. Poi lo ha fatto pure lui. Io questa squadra l’ho salvata e l’ho rilanciata. E l’ho fatto per il bene pubblico”.
E insomma Lotito si descrive come un pittoresco ciclone benefico. Ma deve pur guadagnare, gli dico. “Guardi, la nostra società italiana è una società di prenditori non di imprenditori. L’imprenditore illuminato non deve portare via i guadagni”. Un po’ se li tiene e un po’ li investe. “L’imprenditore illuminato è uno che fa opere di bene. Un’azienda che si occupa di finanza non dà posti di lavoro, non costruisce, non crea ricchezza”.
Per lei Cragnotti era un prenditore? “Non mi faccia dire…”.
Ma la cosa migliore che Lotito ha fatto alla Lazio, che è anche la ragione per la quale gira con la scorta, non me la racconta. Chissà perché. Lotito ha smantellato i sussidi agli ultras, ha rotto i legami con le curve violente del tifo organizzato, ha ritirato le centinaia di abbonamenti gratuiti che venivano regalati alla teppa e ha pure stracciato gli accordi commerciali (e un po’ corruttivi) che affidavano agli ambienti della tifoseria organizzata la commercializzazione dei gadget della Lazio, ha anche denunciato infiltrazioni camorristiche. E’ per questo che gira con un’auto di scorta della polizia. E il suo autista, un gigante buono che lavora con lui da sedici anni e che lo ama come un fratello, mi spiega: “Tu lo vedi così, spavaldo. E puoi farti anche un’impressione sbagliata. Ma il presidente è un uomo generoso che subisce da anni un’aggressione vile. Lui si difende. Se la Lazio fosse Alitalia adesso Lotito sarebbe un eroe nazionale. Abbiamo vinto la coppa Italia, abbiamo battuto la Roma. Mica una partita qualsiasi. Eppure mentre si festeggiava la vittoria, allo stadio, ci hanno buttato le monetine addosso”.
E forse adesso capisco perché Claudio Lotito alterna toni aspri e stridenti, piccoli moti di stizza e diffidenza ad altri improvvisamente bonari e spiritosi. A un certo punto gli chiedo se è vero che suo padre era un poliziotto, come ho letto sui giornali. E la conversazione, per reticenza, si fa a tratti surreale. “Non era poliziotto”.
E che lavoro faceva suo padre? “Io vengo da una famiglia di carabinieri”.
Dunque suo padre era carabiniere. “No, mio zio era carabiniere”.
Capisco. E suo padre che lavoro faceva?“Svolgeva certe funzioni…”. A questo punto cerco un tono mielato, direi framboisé, per indurlo alla massima naturalezza. Dunque gli dico: “Lei è un self made man. Non è nato ricco. La sua è una storia di successo.
Come ha cominciato? E Lotito per un attimo sembra disponibile. “Ho iniziato da ragazzino, il mio primo lavoro è stato il suo. Facevo il giornalista”, mi spiega, e tira fuori anche un tesserino professionale.“Ero collaboratore del Tempo, facevo il corrispondente”.
Da dove? “Da un paese della provincia di Roma”.
Ah, interessante. Ma quale paese? “Non importa”.
[Entra la segretaria con un faldone di documenti. “Questo lo ha lasciato Assunta, questo invece è il contratto per Armando, questo è…”. E lui: “Porca putt…, e che è sta roba?”]
… “Quando ho iniziato a lavorare io c’era meno cattiveria in giro. La gente c’aveva meno sovrastrutture”.
Dunque il suo primo lavoro era con Gianni Letta direttore del Tempo. “No il direttore era Angiolillo. Ma quello non era un lavoro vero. Le attività imprenditoriali le ho cominciate dopo”.
E come ha iniziato? “Frequantavo certi ambienti…”, di nuovo. “Ma stai attento a quello che ti dico. E’ importante. Un tempo si cresceva meglio, con un processo di maturazione intellettiva e interiore”.
Okay. Ma lei dov’è cresciuto? “Nel Lazio”.
Dunque è cresciuto a Roma? “Sulla via dei laghi”.
Ma dove precisamente? “Ti ho detto sulla via dei laghi”.
A Bracciano? “No”.
A Bolsena? “No”. Albano? Grottaferrata? (solo a tarda sera, dopo molte ore, finalmente Lotito scioglie il mistero: “Sono originario di Marino”).
[Rientra la segretaria. Ha un altro pacco di fogli. Sono i disegni, gli schizzi per il nuovo pullman della Lazio. Bisogna scegliere il colore. “Me sembrano tutti uguali”]
Riprendo il filo: lei diceva che negli anni Settanta, quando ha cominciato, la gente era meno cattiva. Ed era più facile fare gli affari. Ma forse semplicemente c’erano più soldi. “Sì, poi s’è tutto sfasciato. E’ arrivata Mani pulite”. E lei fu inquisito. “E assolto. Il mio motto è male non fare paura non avere”.
Che si ricorda di Tangentopoli? “Che bastava un avviso di garanzia ed era come una condanna. Ma c’era corruzione. E non è diminuita”.
Lei vota a destra? “Io guardo la qualità delle persone”.
Quindi ha votato anche a sinistra? “Non ho detto questo. Mo’ te lo chiedo a te: tu sei di destra o di sinistra?”.
Domanda complicata. Le posso dire che ho votato i Radicali. E lei chi vota? “Io sono per una forma di socialismo liberale”.
Carlo Rosselli, socialismo liberale, Partito d’Azione? “Diciamo tra i Liberali e il Psdi. Come aspetto ideologico”. Ma tutti dicono che Lotito, almeno fino a ieri, era berlusconiano.
[Squilla ancora il telefono. Risponde. E mentre parla di calcio e di diritti televisivi, allo stesso tempo continua a rivolgersi anche a me. Così il suo discorso diventa un mosaico sgangherato: “A noi c’ha fottuto l’euro. E’ raddoppiato tutto, il debito e il deficit… sì, digli che va bene, poi lo paghiamo… E infatti col cazzo che gli inglesi mollano la sterlina… con i diritti televisivi abbiamo chiuso alla grande… Romano Prodi ci ha messo in ‘sto guaio dell’euro… anche Andrea alla fine era d’accordo pure lui e la Juve… quando c’era la Guerra fredda si stava meglio. Si stava alla grande… Pronto? Pronto? Mi senti?… eravamo un po’ est e un po’ ovest. Mancavano i soldi? Inflazione! Si stampava moneta. Una meraviglia…”]
Intanto si è fatta quasi mezzanotte quando mi invita a vedere il centro sportivo della Lazio, a Formello, ventotto ettari di prato all’inglese. Una specie di gioiellino tirato a lucido, dove lui ha fatto costruire una televisione e una radio per i tifosi. “Quando arrivai nella Lega calcio, da Cenerentolo, c’era Diego Della Valle che mi zittiva: ‘Tu stai zitto e paga le tasse’, mi diceva. Ora invece mi stanno a sentire tutti. Sono diventato autorevole”.
E Lotito lascia intuire che preferisce Adriano Galliani ad Andrea Agnelli. “Lo stimo Agnelli, anche se ci confrontiamo in maniera serrata. Ma alla Federcalcio ho portato un principio: i voti si contano, non si pesano”. E’ davvero tardi, il sole è tramontato da un pezzo sulla via Appia, e lui, Lotito, è l’unico a non avere l’aria disfatta dal sonno (“dormo tre ore e mezza a notte”).
Prima di salutarci mi sorride: “Lei è di Libero, eh? Antonio Angelucci è un mio grande amico”.
Veramente lavoro al Foglio. “Ah. E chi è il proprietario del Foglio?”.
Paolo Berlusconi ha una quota di maggioranza. “Anche Paolo Berlusconi è un mio grande amico”.
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