Tutte le storie che si rispettino partono dall’inizio o dalla fine. Questa, invece, parte all’incirca a metà, e non potrebbe essere altrimenti vista la singolarità del personaggio. E’ il 6 giugno del 1982, la Lazio ha perso ben presto il treno per la promozione e dopo l’esonero di Castagner perde settimana dopo settimana e partita dopo partita motivazioni e si ritrova alla penultima giornata in piena lotta per la retrocessione, abbandonata anche dai suoi tifosi. Dopo la sconfitta interna di una settimana prima contro la Cremonese, l’Olimpico è deserto, disertato anche dagli abbonati. Sugli spalti siamo talmente pochi da poterci quasi contare quando agli ordini di Agnolin la Lazio scende in campo per affrontare il Varese di Fascetti, lanciatissimo verso la promozione in serie A. Dopo un quarto d’ora, la Lazio è sotto per 2-0, con Turchetta e Bongiorni che battono senza problemi Moscatelli segnando alla fine di due azioni giocate tutte di prima. La Lazio è ad un punto dalla serie C, con la prospettiva di dover giocare all’ultima giornata in trasferta a Palermo. Allo stadio c’è chi piange, chi dopo una ventina di minuti vorrebbe scappare via per non assistere all’ennesima debacle di quell’armata allo sbando. Come ha già fatto due anni prima contro il Catanzaro, dopo l’arresto di Wilson, Cacciatori, Manfredonia e Giordano, Vincenzo D’Amico decide di tirare fuori la sua bacchetta magica, di dar sfogo a quel genio calcistico che vive dentro di lui ma che sovente sonnecchia e esce fuori a corrente alterna.
Agnolin concede un rigore alla Lazio e D’Amico si presenta sul dischetto e realizza. Due minuti dopo, Vincenzo subisce un fallaccio sotto la Monte Mario, vicino all’area. Ha un buco nella caviglia lasciato dai tacchetti del difensore, ma pretende di rientrare. Fa segno ai compagni di piazzarsi dentro l’area per il cross, ma poi disegna una traiettoria maligna, con il pallone che supera la barriera e si infila dentro la porta insieme a Rampulla, che accorgendosi troppo tardi delle intenzioni di D’Amico si fa sorprendere sul suo palo. Finita? Neanche per sogno. Nel secondo tempo, Agnolin concede un altro rigore (abbastanza generoso), Vincenzo prende il pallone, finta la botta come il occasione del primo rigore, poi piazza la palla di piatto: Lazio 3 Varese 2. In un’ora, Vincenzo porta la squadra dal baratro della serie C alla salvezza, trampolino di lancio per la promozione che arriva l’anno dopo, con il rientro di Giordano e Manfredonia.
Genio e sregolatezza: la vita e la carriera di Vincenzo D’Amico è racchiusa in questi due termini che lo hanno caratterizzato fin da quando ha mosso i primi passi. Nato il 5 novembre del 1954 a Latina, approda alla Lazio a 16 anni. Maestrelli si innamora subito di quel ragazzo dai capelli ricci, dal volto sorridente e dai modi di fare irriverenti in campo, dove con le sue finte e i suoi dribbling espone a brutte figure giocatori con dieci anni d’esperienza in serie A. Con la Lazio in piena corsa per la promozione, lo fa esordire in serie B a soli 17 anni, il 21 maggio del 1972, nella partita vinta all’Olimpico contro il Modena. L’estate successiva, Maestrelli lo aggrega alla prima squadra, deciso a lanciarlo in serie A, ma un gravissimo infortunio in un’amichevole, rischia di mettere fine alla sua carriera a soli 18 anni. A quell’epoca, la rottura dei legamenti segna quasi sempre la fine dell’attività agonistica di un atleta. Ma Renato Ziaco non si arrende e sperimentando una nuova tecnica ricostruisce quel prezioso ginocchio e restituisce al calcio italiano e alla Lazio il talento di Vincenzo D’Amico. Tommaso Maestrelli lo stima al punto tale, che durante un’intervista durante il ritiro deroga ai suoi principi, mettendo il singolo davanti alla squadra. Ad una domanda sulle ambizioni-scudetto della sua Lazio alla vigilia della stagione ’73-’74, il “maestro” risponde così.
“A dire il vero, il campionato avremmo già dovuto vincerlo lo scorso anno. Senza voler nulla togliere a Manservisi che è un ottimo giocatore, a noi ci è mancato quel tocco di classe in più, quella imprevedibilità nella manovra che solo D’Amico può darci”.
E come al solito Maestrelli ha ragione. La giovinezza, la freschezza, l’imprevedibilità e la classe di Vincenzo D’Amico trasformano la Lazio, soprattutto in attacco. Il giorno del derby d’andata, il “maestro” è costretto a sostituire il suo pupillo, in crisi di nervi, travolto da Rocca che è imprendibile su quella fascia. Ma anche questo serve per crescere, come il calcio nel sedere rimediato da Chinaglia a San Siro. Partita dopo partita, Vincenzo prende confidenza e nell’ultima giornata del girone d’andata segna il suo primo gol in serie A. E’ il 27 gennaio del 1974 e al 15’ della ripresa Chinaglia, sotto la Curva Sud, finta l’azione personale poi serve di tacco D’Amico che solo davanti a Buso segna il più facile dei gol. Poi, allo scadere, Vincenzo ricambia il favore e consente a “Long John” di realizzare la doppietta personale. Ma la sua grande rivincita, “Vincenzino” se la prende il 31 marzo del 1974, nel derby di ritorno. Ha un conto in sospeso da regolare, ma le cose si mettono subito male, con il cross di Spadoni che provoca l’autogol di Felice Pulici. Come all’andata, però, la Lazio reagisce, questa volta con D’Amico in campo, che segna il gol dell’1-1 all’inizio della ripresa, seguito tre minuti dopo da Chinaglia che realizza il gol-vittoria.
Vincenzo è uno dei grandi protagonisti di quello scudetto: 27 partite giocate, due gol segnati e una quantità di assist per i compagni. Viene premiato come miglior giovane del campionato e la motivazione scritta da Alfeo Biagi, grande cronista sportivo dell’epoca, recita così:
“Vincenzo D’Amico non è una punta come comunemente si crede. E’ una mezza punta con spiccate propensioni per il gioco offensivo. Non ha segnato molto, ma il suo contributo al gioco della Lazio è stato di portata eccezionale. Gioca d’appoggio a Chinaglia e Garlaschelli, richiama lontano il suo marcatore diretto che di solito è un terzino, tocca la palla con la classe che è dono dell’istinto e che non si impara né sui campi di Coverciano né dalle lezioni teoriche dei più grandi maestri di calcio. Si nasce così e basta. D’Amico per noi è il talento più lucido delle ultime leve, rapido nelle conclusioni, geniale nelle intuizioni dello sviluppo della manovra, solido e proporzionato nel fisico, che è quello di un brevilineo veloce. Lasciate che acquisti la necessaria esperienza poi si parlerà di lui come uno dei più forti giocatori italiani di tutti i tempi”.
Ma per diventare fuoriclasse, bisogna saper soffrire. “Vincenzino”, invece, sapendo di avere doti fuori dal comune non ha molta voglia di soffrire negli allenamenti e tantomeno di fare una vita rigorosa da atleta. Quando il fisico lo sorregge, è imprendibile per qualsiasi marcatore. Quando è in giornata, è in grado di vincere una partita quasi da solo. Ma se non c’è, con la testa e con il fisico, in campo si mette a “gigioneggiare”. Così lo ricorda Arcadio Spinozzi, suo ex compagno dal 1981 al 1986.
D’Amico è stato uno dei migliori calciatori che abbia mai conosciuto. Un ragazzo fuori dall’ordinario, tutto estro e fantasia, croce e delizia di compagni e allenatori. Con un colpo di genio, da autentico fuoriclasse, poteva risolvere qualsiasi partita. A volte, però, diventava un peso morto, una zavorra per la squadra. Se non era in giornata di grazia lo capivamo subito, fin dalle prime battute di gara. Prendeva sempre tutto allegramente. Una volta, contro il Perugia, all’avversario, che dopo avergli rubato palla scattava per sostenere l’azione offensiva della squadra, gli urlò: “Ahò, ma ‘ndo vai così de fretta? Ma che te cori? Ahòoo, vabbé torna presto. Io t’aspetto qua”. A un allenatore che si era permesso di metterlo fuori squadra, D’Amico, spacciandosi per tifoso, da dietro la fitta siepe che delimitava gli spogliatoi del ‘Maestrelli’ dal terreno confinante, gridò a pieni polmoni: “A coso, fa giocà D’Amico domenica. Se voi salvà la panchina, lo devi fa giocà. Damme retta, lo dico pel bene tuo!”. Lui era fatto così: imprevedibile, in campo e fuori. Per lui, giocare al calcio non era una professione, ma un hobby. Dubito che abbia rinunciato una sola volta ai piaceri della vita, per il pallone. Sembrava allergico ad ogni sorta di sacrificio.
E io che l’ho conosciuto bene, che l’ho visto fare a 55 anni decine di palleggi con una mozzarella di bufala in un ristorante dopo una puntata di “Goal di Notte”, devo dar ragione ad Arcadio. Tra alti e bassi, comunque Vincenzo d’Amico scrive la storia della Lazio. Uno scudetto “Primavera” e un tricolore con la squadra di Maestrelli lo fanno diventare il leader della Lazio dopo l’addio di Chinaglia e dopo il “tradimento” di Wilson. Contro il Catanzaro, il 30 marzo del 1980 guida una squadra ancora scossa dall’arresto di 4 compagni alla vittoria contro il Catanzaro. Al suo fianco giocano l’esordiente Budoni in porta e ragazzini di 18 anni della “Primavera” come Perrone, Cenci, Manzoni e Ferretti, più Tassotti che con i suoi 20 anni è quasi un veterano. Gioca forse la partita più bella della sua carriera e salva la Lazio sul campo. Con la Lazio finita in serie B a tavolino, va per un anno in esilio a Torino, ma poi torna, deciso a non andare più via. Salva la squadra dalla C con quell’incredibile tripletta al Varese e l’anno dopo è insieme a Giordano e Manfredonia il protagonista indiscusso della promozione in serie A della Lazio. Nella stagione ’83-’84, fa un altro dei suoi miracoli. Quando si infortuna Giordano, si mette a fare il centravanti tattico, in coppia con Michael Laudrup. Gioca partite memorabili, come il derby del 26 febbraio del 1984. Contro una Roma Campione d’Italia che lotta per riconquistare lo scudetto e marcia spedita verso la finale della Coppa dei Campioni, la Lazio può opporre solo il cuore e la classe di D’Amico. “Vincenzino”, dopo appena 9 minuti porta la Lazio in vantaggio, con una delle sue punizioni deviata da Di Bartolomei. Sembra un fuoco di paglia, invece poco dopo la metà del primo tempo Agnolin concede un rigore che D’Amico trasforma: doppietta e Lazio clamorosamente in vantaggio per 2-0. Il gol su rigore di Agostino Di Bartolomei e l’espulsione di Manfredonia, sembrano un segnale di resa, ma nonostante il gol del pareggio di Cerezo, la Lazio riesce a resistere fino al novantesimo, portando a casa un pareggio insperato. Per dare un’idea su come andò quella partita, basta leggere il tabellino, con 13 calci d’angolo battuti dalla Roma e 1 solo dalla Lazio. Quell’anno Vincenzo D’Amico gioca la sua migliore stagione dopo quella dello scudetto, ma è l’ultimo acuto. L’anno successivo la Lazio scivola in serie B. Vincenzo resta, con la speranza di riportare subito in A la squadra, ma i troppi problemi fisici e la prepotente crescita di Dell’Anno, battezzato già suo erede naturale, a fine stagione lo convincono a lasciare definitivamente la Lazio. Se ne va dopo aver indossato per 266 volte la maglia biancoceleste in campionato e con 39 reti all’attivo, ma soprattutto con il rimpianto di quello che poteva essere e non è stato, di non aver sfruttato al massimo il suo talento, quel grande dono che ha ricevuto da madre natura. Anche con la maglia azzurra ha avuto poca fortuna, chiuso da Claudio Sala e Franco Causio, ma soprattutto penalizzato dai suoi alti e bassi. Colleziona una presenza nell’Under 23 e 7 nella Nazionale B, arrivando solo a sfiorare la Nazionale maggiore, convocato ma senza scendere in campo neanche un minuto. Un peccato per lui, che poteva essere uno dei più grandi di sempre, ma un peccato anche per la Lazio, che comunque dovrà essere sempre grata a “Vincenzino” per tutte le volte che l’ha salvata, risultando sempre e comunque decisivo nei momenti importanti.
STEFANO GRECO
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