PETKOVICTutti contro Petkovic. Nessuno tocchi Petkovic. Facile prendersela con il tecnico dopo un mercato inadeguato, insensato, quasi inutile. Facile gettare la croce su un allenatore che accetta in silenzio le scelte portate avanti dalla società in chiave mercato. Facile lasciarlo in balìa delle onde senza prendere una ferma posizione di difesa. La Lazio è anche questo. Un minuto si sta davanti a tutti per ricevere applausi e facili consensi dopo i successi, un minuto dopo ci si fa scudo dell’allenatore per nascondersi – e nascondere – i risultati incerti di inizio stagione dietro l’allenatore. Lo scorso anno – di questi tempi – Petkovic era la rivelazione assoluta: Lazio che viaggiava a vele spiegate ai vertici della classifica del campionato, e tutti esaltati dalla scelta – tanto sorprendente, quanto azzeccata – di un allenatore semi sconosciuto. Un fenomeno Tare, capace di scovarlo in fondo a un cantone svizzero, un genio Lotito, bravo a trovare l’uomo giusto al momento giusto. Petkovic non era un fenomeno prima, quando restituì alla squadra barlumi di luce – e di calcio – dopo l’addio di Reja. Non può essere un brocco oggi, per giunta con un trofeo un bacheca, e che trofeo! I rapporti tra società e tecnico si erano già incrinati nella passata stagione, nel girone di ritorno, quando una serie di risultati negativi avevano fatto precipitare la Lazio in classifica fino al settimo posto. Il trionfo in Coppa Italia contro la Roma aveva riportato un raggio di sole, svanito dopo la prima pioggerella di fine estate. Un batosta contro la Juventus in Supercoppa, la replica in campionato, il derby post Lulic perso – un po’ per caso, un po’ no – in una sfida che contava unicamente per la controparte giallorossa, coi tifosi ancora con la birra in mano, e i calciatori con le pantofole ai piedi. Riavvolgiamo il nastro e torniamo a guardare la classifica finale dello scorso anno. Settimo posto. Cos’è stato fatto per migliorare l’organico e potenziare la squadra? I dirigenti hanno acquistato lussuosi accessori, ma non hanno potenziato la macchina. Servivano due centrali di difesa, con Biava in affanno e Dias con la valigia pronta, due titolari per rigenerare un reparto in disarmo. E’ arrivato Novaretti. Sarà utile alla causa, ma al momento nelle rare occasioni in cui è stato impiegato non ha propriamente convinto. E’ dalla cessione di Kolarov al Manchester City che la Lazio cerca un difensore di fascia sinistra. Trovata la soluzione interna adattando Radu come esterno, nell’ordine sono stati tesserati Garrido, Pereirinha e Vinicius. Tre fallimenti. Il primo non si è mai rivelato all’altezza del campionato italiano, non a tal punto di poter fare il titolare. Bocciato su tutta la linea, senza neanche dilungarsi sulla durata e sulla consistenza dell’ingaggio. Il secondo ha passato più tempo in infermeria che sui campi di Formello. Il terzo, finora non è mai stato preso in considerazione dal tecnico, al punto di cambiare fascia a Konko pur di non metterlo in campo. Quanto meno inadeguato, almeno fino a oggi. Nell’ultimo mercato la somma più cospicua è stata spesa a centrocampo, reparto in cui la Lazio sembrava più che attrezzata. La piacevole scoperta di Onazi – giusto riconoscere al club i meriti di aver creduto nel nigeriano – aveva di fatto colmato la necessità di tesserare un mediano. Gonzalez è elemento imprescindibile, Ledesma un esperto navigatore dei sette mari.  E poi Lulic e Candreva sulle fasce, Hernanes in rifinitura, Ederson come alternativa. Un reparto completo, privo di carenze, se non quella legata alla successiva squalifica di Mauri. L’acquisto di Biglia è quasi inspiegabile. Ma è un nazionale argentino, titolare della squadra di Sabella, e merita rispetto. Ma spendere soldi per un vice-Ledesma sarebbe come acquistare Handanovic come alternativa a Marchetti. Un lusso  che la Lazio non può permettersi. Felipe Anderson finora non si è mai visto. Sarà un brocco? Sarà un fenomeno? Chissà. Per ora l’unica cosa certa è che siamo arrivati a ottobre senza mai vederlo. Tre mesi di nulla, un quarto dello stipendio in beneficenza.

Il reparto offensivo era quello che richiedeva – insieme alla difesa – il maggior supporto. Serviva un vice Klose, lo sapevano anche i muri. Il tedesco, già in affanno nella passata stagione, ha continuato a giocare sui livelli – bassi – del girone di ritorno. Poche partite, pochi gol. Un attaccante con le polveri bagnate, che nell’anno solare ha segnato in tre occasioni: Bologna (cinque gol), Juventus (gol della bandiera) e contro l’Austria (record di reti condiviso con Muller). Venticinque partite, sette gol. Un rendimento decisamente al di sotto delle aspettative, numeri in antitesi rispetto a quanto era riuscito a ottenere durante il corso della propria carriera. I dirigenti non hanno avvertito il campanello d’allarme, e soprattutto non hanno avvertito l’esigenza di trovare una valida alternativa. Yilmaz non era nei piani. Ma alla fine sarebbe potuta essere un’occasione. Sfumata, in extremis, per il gioco delle tre carte fatto dal procuratore del giocatore. Ma nello stesso istante in cui sfumava la possibilità di portare l’attaccante turco a Roma, veniva ceduto Kozak. Utile, ma non indispensabile. Non indispensabile, ma pur sempre il capocannoniere di Europa League. La risposta alla partenza di Kozak è stato l’arrivo di Perea, al momento un qualsiasi Carneade. Detto questo, siete ancora convinti che la colpa sia unicamente di Petkovic? Facile mettere ora la testa del tecnico di Sarajevo sul ceppo, le responsabilità stanno altrove. A fine stagione è sempre più probabile che le strade si dividano; Petkovic da una parte, la Lazio dall’altra: l’allenatore lascerà in bacheca una coppa Italia, come il grandissimo Fulvio Bernardini, e come l’amato Delio Rossi, e un trionfo indelebile la cui eco sorpasserà anche questo secolo. Al netto di tutto iniziano a rimbalzare le prime voci di un eventuale esonero, frutto dei franchi tiratori prestati al potere governativo. E se fosse Petkovic a dimettersi? Meditate gente, meditate…

MIRKO BORGHESI



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