Alzi gli occhi e fissando quel cielo plumbeo che minaccia pioggia sono mille i pensieri che ti affollano la mente in questa domenica di settembre che assomiglia più ad un giorno di pieno autunno che ad una giornata di fine estate. Pensi alla bara di Giorgio Chinaglia atterrata poco dopo l’alba a Fiumicino dopo quell’ultimo volo che da Boston lo ha riportato per sempre a Roma. Pensi che oggi giochi con il Chievo di Verona e anche se non è il Verona vero non puoi non tornare con la memoria a quel 14 aprile del 1974, quando fu proprio Giorgio su imbeccata di Maestrelli a guidare la grande rimonta dopo un intervello passato non negli spogliatoi a litigare, ma in campo ad aspettare gli avversari e a trasformare l’Olimpico in un Colosseo dell’era moderna. Pensi a come ci eravamo lasciati due settimane fa, alla rabbia che montava per l’ennesimo tradimento consumato il 2 settembre e a come questa sosta abbia smorzato tutto, trasformando i propositi di contestazione forte e rumorosa (non violenta, sia chiaro, ma comunque vibrante) in una sorta di marcia che produrrà lo stesso effetto del solletico ad uno che invece di chiedere scusa alla gente attacca per l’ennesima volta i tifosi e li invita a prendere un diger selz per curarsi i mal di pancia. Pensi a tutte queste cose e capisci che è tutto cambiato, perché oggi andrai allo stadio portando per mano tuo figlio ma con ben poco trasporto, quasi senza emozione.
Sì, perché sarò fatto male io probabilmente, ma per me il calcio è stato sempre e solamente emozione, non risultato e classifica. Sarò un inguaribile romantico, uno fuori dal tempo, ma nel mio forziere dei ricordi un posto d’onore è riservato a partite in cui non c’era un trofeo in palio come il 26 maggio o il 18 agosto, ma delle quali a distanza di 30 anni e più ricordo tutto. Il derby del 28 novembre del 1976 vinto 1-0 con gol di Giordano sotto la Nord con Maestrelli morente a pochi chilometri dall’Olimpico; domenica 5 dicembre del 1976, quando in lacrime e abbracciato agli amici di stadio di una vita ho ascoltato le note del silenzio in onore dei caduti suonate da un trombettiere sconosciuto allo stadio di San Siro prima di Inter-Lazio per ricordare il “maestro” appena scomparso, in una domenica finita con la gioia dell’abbraccio rabbioso e umido di lacrime dell’intera squadra dopo l’1-1 firmato da Giordano; il 30 marzo del 1980, quando una settimana dopo l’arresto di Wilson, Cacciatori, Giordano e Mafredonia, Vincenzo D’Amico segnò il gol dell’1-0 contro il Catanzaro guidando (da capitano…) alla vittoria una squadra imbottita di ragazzini della Primavera; il 6 giugno del 1982, quando D’Amico realizzò in un Olimpico con meno di 5000 spettatori sugli spalti tre reti contro il Varese salvando la Lazio dalla retrocessione in Serie C; il 21 giugno del 1987, che a livello di emozioni in una classifica ideale dei miei 46 anni di stadio e di Lazio sta in cima, prima del 19 maggio del 1999 quando alzammo al cielo di Birmingham il primo trofeo europeo della storia della Lazio e del calcio romano, ma anche davanti al 12 maggio del 1974 e al 14 maggio del 2000. E potrei andare avanti, ma per chi vuole capire basta così.
Oggi, quindi, andrò all’Olimpico pensando a Giorgio Chinaglia e a Maestrelli, alla Lazio senza pretese di gloria di cui mi sono innamorato a cinque anni scarsi e che è lontana anni luce da questa gestita da gente senza anima e che ogni tanto finge di onorare la storia magari dedicando una maglia (da vendere alla modica cifra di 120 euro a pezzo…) a Silvio Piola, ma che a livello di passione per la Lazio ha la stessa sensibilità che può avere un muro di pietra o di un blocco di marmo. Non una statua, perché in una statua c’è almeno l’anima dell’artista che l’ha scolpita, ma di un blocco di marmo grezzo staccato da una montagna.
Per questo sarò sempre al fianco della Lazio, ma a modo mio, disprezzando sempre e comunque Claudio Lotito indipendentemente dai risultati che otterrà la sua Lazio. Perché io tifo per un’ideale, non per un qualcosa che non possiede un’anima. FORZA LAZIO!
STEFANO GRECO
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