Parlare di Giuliano Fiorini è come raccontare a chi non l’ha vissuto un calcio che oggi, purtroppo, non c’è più. Con la sua genuinità e la sua bonarietà tipicamente emiliana, Giuliano Fiorini è uno dei simboli di quel calcio in cui andavano in voga i “centravanti-boa”, chiamati a piazzarsi al centro della difesa avversaria per difendere con spinte, gomitate e spallate, palloni da smistare ai compagni, oppure ad aprire con il loro fisico dei varchi in cui far infilare il centrocampista di turno. Giuliano lotta, suda, impreca e sbuffa, ciondolando sempre la testa, con quei calzini perennemente abbassati e la maglia fuori dai pantaloni. E’ amato dai compagni, odiato dagli avversari, adorato dai tifosi, sopportato dagli arbitri. Per farvi capire chi è Giuliano Fiorini, vi racconto due aneddoti che lui stesso mi ha confidato una sera a cena.
Durante la partita, Fiorini si lamenta continuamente per i falli che lui dice di aver subito e che l’arbitro regolarmente non gli fischia a favore. E, quando non gli viene assegnata la punizione, Giuliano guarda con espressione stupita il direttore di gara e gli dimostra tutto il suo dissenso e la sua incredulità in modo plateale, scuotendo il capoccione, allargando le braccia in segno di protesta o mandandolo platealmente a quel paese, ma sempre con un sorriso accennato sulle labbra. E’ una vera pentola di fagioli, brontola in continuazione, ma gli arbitri però lo conoscono bene, spesso lo redarguiscono per il suo atteggiamento, altre volte fanno finta di non sentirlo. Una volta, pressato dal marcatore di turno, Fiorini cade a corpo morto in area di rigore. L’arbitro corre verso di lui e gli urla in faccia deciso: “Fiorini, la smetta di simulare! Si alzi immediatamente!”. “Ma cosa ha capito?”, gli risponde lui, steso per terra, voltando il capo con gli occhi sgranati. “Ma chi lo vuole il rigore? Ma no, ma mica ci ho provato. È che non ce la faccio veramente più, non vede? Non mi reggono le gambe. Che vuole che simuli?”. L’arbitro si mette a ridere e lo aiuta a rialzarsi.
L’altro aneddoto, è legato ai tempi del Genoa. Fiorini non conduceva certo una vita da atleta, amava la buona cucina e non disdegnava qualche bicchiere di vino. Prima di una partita, esagera e durante l’incontro comincia a sentirsi male. Non riesce a respirare, fatica a scattare, ma all’improvviso ha un guizzo, gli capita il pallone giusto e segna proprio sotto la gradinata Nord, si inginocchia e poi si piega in avanti con la faccia a terra, come un musulmano durante la preghiera. I tifosi impazziscono, i compagni si avvicinano e scoppiano a ridere. In realtà, Fiorini non sta esultando e tantomeno piangendo dalla gioia per il gol segnato, si è solo piegato in due per i dolori e ha vomitato in campo.
Ma Giuliano Fiorini non è solo questo. E’ un giocatore con l’istinto innato del gol e ha una buona tecnica nonostante la mole fisica. Cresciuto nel vivaio del Bologna, dove ha esordito in serie A appena diciassettenne, è esploso segnando 21 gol in una stagione in serie C a Piacenza. Un exploit che ha convinto il Bologna a riportarlo a casa, all’età di 23 anni, per affiancarlo all’ancora più giovane nuovo talento del calcio italiano, Roberto Mancini. Dopo due stagioni a Bologna in A con 11 gol segnati, arriva il trasferimento a Genova, dove con la maglia rossoblù segna solo 14 reti in due stagioni, ma diventa un idolo, al punto che la piazza si rivolta quando la società lo cede all’odiata Lazio. In biancoceleste lo porta Giorgio Chinaglia, che rivede in Fiorini qualcosa del Long John calciatore. L’avvio è promettente: gol vittoria all’esordio con il Palermo e un’ottima intesa con Oliviero Garlini, che chiude la stagione conquistando il titolo di capocannoniere della serie B. Ma un problema al tallone d’Achille lo costringe a rallentare gli allenamenti e poi ad operarsi. Chiude la stagione con appena 3 gol all’attivo in 18 partite. Nella seconda stagione, però, diventa il leader della squadra. Il 26 luglio del 1986, quando nel ritiro di Gubbio arriva nel primo pomeriggio la notizia che per l’ennesimo scandalo la Lazio è stata condannata addirittura alla retrocessione in serie C, dopo il discorso di Fascetti alla squadra Giuliano Fiorini si alza e per primo dice: “Io resto qua, qualunque cosa succeda”. E con quelle sue parole, si porta dietro tutti, pure i compagni più restii. Anche in campionato, nei momenti di difficoltà spesso e volentieri si carica la squadra sulle spalle, scuote i compagni più giovani o più timidi, carica l’ambiente con i suoi gol e la sua gestualità. Fiorini forma con Caso e Terraneo l’asse centrale della squadra. Con i 6 gol segnati il suo non è un campionato memorabile, ma grazie a quel settimo gol, segnato il 21 giugno del 1987 allo stadio Olimpico, entra per sempre nella leggenda. Come nel film di Nick Hornby, Fever Pitch, l’eroe entra in scena quando tutto sembra perduto. Per più di 80 minuti, sostenuta e sospinta da oltre 70.000 tifosi, la Lazio si getta all’assalto della porta del Vicenza per segnare quel gol che significa “sopravvivenza”. Ma Dal Bianco, più che i panni del portiere sembra indossare quelli del capitano che comanda il plotone di esecuzione, pronto a eseguire la condanna a morte della Lazio. Con il passare dei minuti, la speranza lascia quasi il posto alla disperazione, alla consapevolezza di essere realmente ad un passo dalla serie C e forse addirittura alla fine di una storia durata 87 anni. Ma come nel film di Hornby, l’eroe improbabile entra in scena: Fiorini si ritrova tra i piedi un tiro-cross sbagliato di Podavini, controlla di tacco a seguire, si gira e tocca il pallone quanto basta per abbattere il muro eretto da Dal Bianco. Ero allo stadio quel giorno. Mai in vita mia ho sentito un boato così fragoroso, ma soprattutto interminabile. In quell’esultanza, più di 70.000 persone sfogano in un istante mesi di paure, di frustrazioni e di speranze che a soli 7 minuti dalla fine del campionato sembrano perse. Dopo quel gol ho visto gesti di isteria collettiva. Ho visto uomini di una certa età piangere come bambini, ho visto gente quasi fluttuare nell’aria senza riuscire più a toccare terra in un’esultanza sfrenata, rabbiosa. Solo a ripensare a quei momenti, solo a rivedere per la millesima volta le immagini di quel gol, la corsa di Fiorini verso la Nord, l’esultanza dei compagni e Giuliano che rientra in campo stremato, quando la partita è già ricominciata, qualsiasi laziale non può non provare un brivido, non può impedire ad una lacrima di scendere, sentendo quel groppo alla gola che si prova soltanto ricordando i momenti importanti della vita. Poi le lacrime di Fiorini, nudo e stremato, sorretto dagli addetti della Lazio, travolto dall’abbraccio dei tifosi, quasi consegnato nelle mani dell’amico Terraneo, l’altro Giuliano di quella banda del –9. Immagini indimenticabili, come indimenticabile resta quel gol di Fabio Poli nello spareggio vinto a Napoli contro il Campobasso, la rete che ha messo la parola fine ad un incubo durato quasi 11 mesi.
Quanto quella squadra sia nel cuore della gente, quanto Giuliano Fiorini sia entrato di diritto nella storia della Lazio, si è capito il giorno del Centenario. Nella serata in cui la società festeggia un secolo di vita, alla fine di una giornata in cui la squadra di Eriksson ha fatto un importante passo avanti verso la conquista del secondo scudetto, l’applauso più fragoroso di un Olimpico stracolmo è riservato proprio a Giuliano Fiorini, presentato con queste parole: “Fu lui a segnare quel gol grazie al quale siamo ancora in vita”. Già, perché quel suo gol al Vicenza forse ha cambiato veramente la storia della Lazio. Ma questa storia, al contrario di Fever Pitch di Nick Hornby, non ha un lieto fine. Dopo quel gol, Fiorini è costretto a lasciare la Lazio in punta dei piedi, ad emigrare a Venezia, quasi senza neppure un grazie per quello che ha fatto per la Lazio, nonostante gli infortuni che lo hanno tormentato e condizionato in quelle due stagioni romane. L’addio alla Lazio è di fatto un addio al calcio. Finita la carriera da calciatore, una volta appesi gli scarpini al chiodo Fiorini si rifugia nella sua Bologna. Ogni tanto, fa un salto a Roma per trovare i vecchi amici, per regalarsi qualche serata di allegria e di nostalgia.
Il 5 agosto del 2005, poi, a soli 47 anni, Giuliano Fiorini ci ha lasciato. Un brutto male ce lo ha portato via, spegnendo per sempre quel sorriso che resterà però acceso nella memoria di chi lo ha amato o anche solo semplicemente conosciuto e apprezzato per quello che sapeva dare, per le emozioni che sapeva trasmettere. Per lui, nella prima giornata della stagione 2005-2006, c’è un mazzo di fiori depositato da Paolo Di Canio sotto la Curva Nord, a fianco di quella maglia numero 9 con l’aquila sul petto e una striscione che dimostra l’affetto della gente laziale per quello che resterà per sempre l’uomo che ha salvato la Lazio dal baratro in quella sfida con il Vicenza: Anche tu nel paradiso degli eroi… Ciao Giuliano!
STEFANO GRECO
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