Quante cose ci sono dentro una semplice immagine. Di lui e della sua vicenda assurda avevamo già scritto e ci torniamo sopra perché è stato lui ad alzare la Coppa Italia vinta contro la Roma. Ci torniamo sopra perché nell’ennesima stagione quasi perfetta di Stefano Mauri è mancato solo il suggello finale, il gol del definitivo ko alla Roma nei minuti finali dell’ultimo atto di questa annata paradossale. Quel destro sparato sui guanti tremebondi di Lobont poteva e doveva avere miglior sorte. Primo, perché avrebbe reso più netto il bottino. Secondo perché nella stagione iniziata passando da una cella della prigione di Cremona ad una stanza di ritiro in quell’angolo di Paradiso chiamato Auronzo di Cadore, Stefano Mauri l’avrebbe meritato quel premio.
E’ lui il capitano ed è lui che alza la Coppa al cielo. Il gesto che passa alla storia quanto il gol di Lulic, l’immagine simbolo di questa domenica trionfale in cui è racchiuso il senso e la forza dell’impietosa bastonata rifilata ai rivali di sempre.
Qualche mese addietro riflettemmo sulla mala gestione (di chi indaga e della giustizia sportiva) dell’intera vicenda scommesse e sull’assurdità della situazione di Mauri. E non tanto per le accuse piovute sul calciatore e sull’uomo. Accuse che, per inciso, qualcuno prima o poi dovrà provare in un’aula di tribunale, ammesso che per come si sono messe le cose la Procura di Cremona arrivi ad ottenere un rinvio a giudizio per Mauri. Decideranno i giudici sulla consistenza degli elementi raccolti dagli inquirenti e sulla credibilità del grande accusatore (Gervasoni), smentito anche dalle stesse persone da lui indicate come autori delle confidenze che dovevano incastrare Mauri. La situazione era ed è assurda perché un giocatore finito in galera (e poi rimesso in libertà) per volere della giustizia ordinaria, dopo quasi un anno dall’inizio della vicenda deve essere ancora giudicato dalla giustizia sportiva. Quella vicenda che gettò su Mauri e sulla Lazio tonnellate di inchiostro pesante come piombo e maleodorante come il letame, in nome di un giustizialismo che non si è visto nemmeno ai tempi di Mani Pulite.
Scrivemmo che Mauri era passato, senza tappe intermedie se non quella di una breve vacanza, dalla detenzione al ritiro di Auronzo. Scrivemmo che tutto quello che avrebbe dimostrato sul campo in questa stagione avrebbe meritato giuste sottolineature, perché la condizione psicologica dell’uomo e del professionista non era proprio la migliore per pensare solo al calcio giocato. L’esperienza del carcere è una prova inimmaginabile da dover affrontare e dagli effetti assolutamente imprevedibili sulla tenuta mentale di una persona. Di qualsiasi persona, figuriamoci di un personaggio pubblico gettato in pasto alla folla ed esposto alla gogna mediatica. E comunque, dopo gli interrogatori “Arrivederci e grazie. E ci scusi ancora”. O forse no, neanche quello. Fatto sta che Mauri torna alla vita di sempre con un fardello pesante e un marchio difficile da cancellare nel cristallino, integerrimo e trasparente mondo del calcio.
Con la spada di Damocle di una condanna annunciata decine di volte a mezzo stampa e con la prospettiva di un’incombente maxi squalifica che avrebbe messo la parola fine con in calce un marchio d’infamia alla sua carriera, Stefano Mauri da Monza, a 33 anni si è calato nel campionato alla sua maniera. In punta dei piedi ma da giocatore determinante per la Lazio, come sempre nel bene e nel male negli ultimi cinque anni. Un campionato di ripartenze. Non solo pensando al contropiede e al gioco tra le linee, al ruolo di trequartista anomalo disegnato su di lui da Delio Rossi. Un campionato di ripartenze perché non può essere un caso il rendimento della Lazio legato a doppio filo a quello del suo giocatore fondamentale. Partenza-via, Mauri è determinante per le sponde con Hernanes, per i lanci dettati a Ledesma, per le sovrapposizioni di Candreva e per le sponde con Klose. Una ventina di partite, 4 gol, di cui due pesantissimi. Alla Roma nel derby d’andata decisivo per la vittoria e alla Juve nella semifinale di andata di Coppa Italia per firmare un 1-1 pesantissimo. Questo fino all’inciampo con il Napoli e allo stop forzato. Una scivolata assurda sul pallone del gol di Floccari recuperato in fondo alla rete, una caduta da oggi le comiche che ha segnato l’inizio di un calvario senza fine. Una distorsione alla caviglia, mal giudicata dai medici della Lazio e curata ancora peggio, tra ricadute e conseguenti guai muscolari. Mesi buttati al vento fino al volo in Germania, alla diagnosi finalmente esatta del medico di fiducia di Klose, poi la rieducazione e una lenta ripresa che non lasciava troppe speranze per la finale con la Roma, per l’atto finale e più importante di tutta la stagione.
E invece, ripartenza! Ripresa con affanni vari, recupero lampo o quasi e un posto da titolare nella finale. E così succede che il calciatore più vilipeso dai dirimpettai, preso in giro per la storia di Samantha e degli sms di quella scheda, finisce per stenderli ancora una volta. Determinante come in quel lontano derby del 2006, quando colpì la traversa dopo l’ennesimo inserimento con cui aveva tagliato a fette la difesa della Roma, propiziando il 3 a 0 di Mutarelli. Quest’anno all’andata aveva fatto gol intuendo la sventatezza di Piris. Un anno prima al ritorno aveva arpionato di sinistro la punizione di Ledesma per infliggere il secondo dispiacere consecutivo alla banda di Luis Enrique. Stavolta è entrato con la sua personalità mascherata da svagatezza, dietro quella facciata di uno che sembra più attento al look e a quel laccetto usato per non scompigliare l’acconciatura che a tutto quello che succede intorno a lui. Ha sostituito Ledesma, uno degli insostituibili della Lazio, se non altro per la mancanza di un omologo di ruolo. Si è messo nella sua solita posizione tra le linee, senza esibire la sua corsa migliore. Non poteva essere altrimenti, perché il nome di Mauri non doveva nemmeno entrare nella lista dei convocati. E ancora una volta ha messo la firma. Ha dato il via all’azione del gol di Lulic, nato da un gioco a due con Candreva, semplice solo se visto in televisione. Tutto qui, può sembrare poco invece è uno di quei particolari che fa tutta la differenza del mondo. Perché sospeso tra Inferno e Paradiso, alla fine la Coppa al cileo di Roma l’ha alzata lui. Uno che vive ancora sub iudice. Un malfattore da squalificare a vita secondo alcuni. Un incauto utente di una scheda telefonica ancora da giustificare secondo noi e secondo quanti si sono limitati a leggere le carte dell’inchiesta senza farsi influenzare dal pregiudizio del tifo.
Non è una santificazione questa, perché Mauri sbagli ne ha fatti. E la sua difesa è debole proprio a causa di quella scheda telefonica, dedicata a detta di Mauri e dei suoi legali alle scommesse sul basket, la sua seconda grande passione. Ma ce ne corre tra la leggerezza imperdonabile e il carcere per il pericolo di fuga o di reiterazione del reato (a campionato finito). Un reato tutt’altro che provato per giunta e che si basa solo sulle dichiarazioni di un pentito giudicato in seguito “poco attendibile e disposto a dichiarare qualsiasi cosa pur di alleggerire la propria posizione”dagli stessi giudici sportivi che hanno scagionato altre vittime delle confessioni di Gervasoni.
La sua, in piccolo, sembra una versione italiana della storia di Eric Abidal, passato nel giro di pochi mesi dal tumore e dalla chemioterapia ad alzare al cielo la Coppa dei Campioni. Mauri era un individuo socialmente pericoloso e colpevole come il peccato dodici mesi fa. Tanto pericoloso che ad un anno di distanza da Cremona non arrivano conferme sul suo reale coinvolgimento e tanto colpevole che la giustizia sportiva non ha ancora deciso il suo destino, nonostante deferimenti imminenti annunciati più volte a mezzo stampa in questi dodici mesi. Lui, intanto, ha deciso il destino della Lazio. E anche di qualcun altro in questa città, finito in quell’inferno in cui un anno fa era piombato Stefano Mauri.
STEFANO GRECO – LAZIOMILLENOVECENTO
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