D’accordo che prima c’è il Legia. E molti ripeteranno come un mantra il fatto di essere concentrati su una partita europea e dunque ben più importante di quella che il calendario ha piazzato nel giorno 22 di settembre. Ma attenzione alla grancassa, al circo mediatico che ha già piantato le tende e che dopo la vittoria della Roma a Parma e il primato in classifica darà il via, statene certi, al più grande esperimento della storia della comunicazione capitolina. Quello di trasformare la partita di domenica prossima in una rivincita del 26 maggio. A prima vista un’impresa senza via d’uscita, un numero di magia che nemmeno un Houdini o un David Copperfield avrebbe mai tentato. Ma visto il terreno sempre fertile della Capitale, l’humus propizio alle fantasie più sfrenate, la riuscita del numero da circo è garantita o quasi. Queste saranno le sirene di una settimana che nel rettangolo tecnico, a dispetto del 3 a 0 alla nefasta tradizione-Chievo e nonostante l’aura magica del ritorno definitivo di Long John, presenta diverse incognite.
Che Lazio è quella di quest’anno? Forse sotto questo aspetto la partita di domenica prossima potrà dire qualcosa. Perché forse in ottanta e più anni di derby, per la prima volta sarà consentita l’esclusiva valutazione tecnica, scevra da contenuti emotivi esauriti il 26 maggio scorso. Non c’è rivincita e non è consentito l’uso della maiuscola. Il derby ha cambiato storia e potremo leggerlo solo sotto l’aspetto tecnico, come una partita che vale dolo 3 punti: e non è un vantaggio da poco. Il derby si potrà giocare senza eccessivi carichi nervosi e anche questo è un vantaggio. Ma serve per soppesare animo e spessore della squadra. Per cercare di capire, dentro alle tante incognite smascherate dal campo dopo un mercato fragile, se esiste una via di mezzo tra l’incompletezza cronica che confinerebbe a rigor di logica la squadra nel limbo del centroclassifica e la cifra tecnica dei singoli che pure, per il contesto del campionato italiano, appare comodamente sopra alla media.
Due cose suscitano pensieri, osservando lo scorrere degli ultimi eventi. Il ritorno di Giorgio Chinaglia, quello definitivo, e l’eterna incapacità laziale di imprigionare l’incantesimo. Di tenersi stretto il momento d’oro. Di moltiplicarne gli effetti, di tradurre il sogno in energia straripante. Vuoi per un fattore, vuoi per un altro, tutto ciò non è mai appartenuto alla Lazio, non ha mai fatto parte del suo bagaglio di storia: la festa finisce troppo presto, la sera scende troppo in fretta. Parliamo di Giorgio Chinaglia e della tempesta di sentimenti che ogni atto della sua storia riesce a suscitare, al di là della chiusura di una vicenda terrena. E’ tornato rivoltando il mondo, come suo solito. Per la prima volta un funerale in chiesa ha celebrato un ritorno e non un addio. Ma quante lacerazioni dietro a un atto d’amore. Conflitti e lacrime di famiglie divise, nella tormentata tradizione tracciata da sempre nel tessuto biancoceleste. Cuore pesante anche in un atto d’amore. Un padre che attende un figlio e qualcuno che soffre per un distacco. Nell’oscura legge del prendere e dell’avere non esiste bilancio positivo nella storia della Lazio. Chinaglia torna e una foto proietta uno strano raggio, in grado di unire passato e presente, di azzerare la distanza del tempo nei pensieri. Una foto ingigantita dai tifosi della Tevere (che peraltro campeggia sullo sfondo). Un’immagine di Long John che esulta dopo un gol al Milan, stagione 1974-75. E’ la Lazio con lo scudetto sulla maglia, è la Lazio di un “dopo”, è anche il Chinaglia di un “dopo”. Pantaloncini blu con un bel numero bianco sul davanti, collo all’ inglese stile Manchester; una maglia che precorre i tempi, abbagliante nella sua bellezza, ma qualcosa non torna. E’ troppo raffinata, troppo “fighetta” potremmo dire. Non ha le stimmate della selvaggia semplicità di un anno prima, l’anno in cui tutto riusciva, in cui gli eventi si piegavano al sogno. Chinaglia va a strappi quell’anno, la Lazio va a strappi quasi sentisse in anticipo la tragedia che si sarebbe consumata a primavera, la malattia tremenda del Maestro. Del Padre che avverte già difficoltà nel motivare una famiglia imborghesita, un po’ sgonfia, in cui la grinta serena di un anno prima non si manifesta più a coprire i tanti dissidi.
Tutto questo si lega alle parole semplici di un bravo giocatore, che speriamo torni in fretta. Da lombardo pragmatico, Giuseppe Biava ha fotografato la crepa più vistosa della Lazio di oggi. Le motivazioni annacquate dalla sbornia del 26 maggio. La sindrome da pancia piena a cui nessuno aveva dato il giusto peso. Se a questo si aggiungono i malumori inevitabili suscitati dall’ennesima sconcertante prova di mercato offerta dalla società, comprendiamo forse la velocità di evaporazione dell’entusiasmo post Coppa Italia. Nessuno dentro e fuori la squadra è capace di trattenere il sogno per il verso giusto, senza bearsene a vanvera. La squadra spenta, avvitata ancora (leggiamolo complessivamente, il 3 a 0 al Chievo) nelle insicurezze che hanno accompagnato il girone di ritorno dell’o scorso anno.
Quadro completato da un mercato che ha regalato solo incognite, gettando acqua gelata sul fuoco sacro della vittoria. Nessuno ha mai visto Anderson e pochi vogliono rivedere Novaretti, Perea è già gravato da attese all’eccesso, abbiamo un portiere (Berisha) che si sente più forte di Marchetti e soprattutto Yilmaz è rimasto dov’era. E’ vero in assoluto che altri hanno venduto molto e la Lazio no (a proposito, il circo mediatico di Houdini e David Copperfield ha fatto sparire nel nulla le cessioni di Marquinhos, Lamela e Osvaldo). Ma è altrettanto vero che a noi bastava talmente poco… E questo aumenta la rabbia.
Chiusa parentesi, tanto sappiamo tutto ed è inutile tornarci sopra, ma se si voleva minare terreno e certezze l’obiettivo è stato centrato. Abbiamo una squadra senza i puntelli necessari, con un anno in più (un anno composto da sessanta partite a testa, ricordiamolo sempre), un Mauri in meno (e troppo silenzio intorno ad una vicenda ignobile, simile ad un assurdo redde rationem federale) e due infortuni pesanti in difesa, nel reparto che sembra più vulnerabile.
A questo punto arrivano “loro” e fermiamo il pensiero sull’unica concessione emotiva possibile. Nel 1975 alla Lazio del dopo Scudetto, del primo Scudetto, la Roma tese tre brutti sgambetti. Ora, la Coppa Italia del 26 maggio non vale uno Scudetto, ma quanto a potenza euforizzante equivale tranquillamente ad un traguardo storico. Non sminuiamo solo perché in giro si sente parlare di nuovo di portaombrelli e perché a qualcuno è bastata un’estate per perdere la memoria… portiamo qualcosa di tricolore sulle maglie. Faccia in modo la Lazio di oggi, con le sue incognite e le sue fragilità, di ribadire la superiorità marcata da quella coccarda. Noi ce l’abbiamo e loro no, non consentiamo sfregi su quel prezioso tricolore. E’ solo questione d’orgoglio, è l’unica emozione. Detto questo, a scanso di equivoci, NON CI PROVATE ! Non c’è e non ci sarà mai rivincita.
STEFANO GRECO
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